Arundhati Roy e la necessità di non rappresentare le donne solo come vittime
La scrittrice indiana ha dato voce a chi non aveva voce: i suoi libri sono sempre partiti dal suo paese, per raccontare un malessere universale
La scrittrice indiana ha dato voce a chi non aveva voce: i suoi libri sono sempre partiti dal suo paese, per raccontare un malessere universale
C’è tutta una vita prima della pubblicazione del folgorante esordio letterario di Arundhati Roy. Dalla sua India, una terra piena di bellezze e miserie, grazie al successo mondiale de Il dio delle piccole cose l’allora debuttante scrittrice fu catapultata in una dimensione del tutto nuova. Prima si era occupata di urbanistica, aveva venduto dolci ai turisti a Goa e persino insegnato aerobica. Si era sposata, separata e poi aveva ripetuto entrambe le cose. Ma il bello doveva ancora arrivare.
Il clamoroso debutto letterario del 1997 segnò una nuova e imprevedibile rinascita, anche economica. Tuttavia, nonostante le interviste, le celebrazioni e il successo, non stava andando esattamente come previsto. In un’intervista di qualche tempo fa a Lithub, raccontò di essersi sentita usata dal suo Paese, che a fine anni Novanta attraversava un periodo di pericoloso nazionalismo e militarismo.E, soprattutto, non accettava che molti, soprattutto uomini, le dicessero che la strada percorsa era quella pericolosa e sbagliata.
A quel tempo ero sulle copertine dei giornali perché avevo vinto il Booker prize. Nel giro di pochi mesi, l’estrema destra di BJP era salita al potere e stava conducendo una serie di test nucleari. C’era un’orgia generale di nazionalismo e di celebrazione. Io fui presentata come l’ultima novità che l’India poteva offrire al mondo, insieme a reginette di bellezza e bombe nucleari. Ero profondamente a disagio. […] Ero entrata a far parte di qualcosa a cui non volevo partecipare.
Suzanna Arundhati Roy è nata a Shillong, nello stato del Meghalaya (India), nel 1961. Suo padre gestiva una piantagione di tè, mentre sua madre si adoperava come attivista per i diritti delle donne. Il divorzio dei genitori, quando lei aveva solo due anni, separò la famiglia e segnò anche la sua esperienza di figlia e donna. Dopo gli studi in architettura, si laureò con una tesi sullo sviluppo postcoloniale urbano a Delhi, dimostrando già grande attenzione per le tematiche sociali del suo Paese.
Nel 1977 sposò Laurie Baker, architetto di origini britanniche, e con lui andò a vivere prima in una baraccopoli a Delhi, poi a Goa, in un contesto decisamente hippie. Dopo quattro anni insieme, la coppia si separò e Arundhati tornò a Delhi per lavorare nel campo urbanistico. Al nuovo compagno, il regista indipendente Pradip Krishen, iniziò a manifestare l’intenzione di scrivere: dopo le nozze, nel 1984, i due scrissero insieme diverse sceneggiature. Tuttavia, non funzionò né con il cinema né con il nuovo compagno: restava l’amore per la scrittura. Nel 1997 pubblicò il suo primo romanzo, senza poter prevedere l’interesse mondiale che avrebbe suscitato.
Diventata improvvisa famosa grazie a Il dio delle piccole cose, Arundhati Roy comprese fin da subito che non voleva essere “l’interprete” della realtà indiana per il pubblico occidentale. Abbandonata la finzione letteraria, si gettò a capofitto nella dimensione più insidiosa del saggio. Non c’era bisogno di aggiungere una sottotesto sociologico ed esplicativo alla sua esplorazione del cuore nero indiano, perché il suo intento era semplicemente quello di dare voce a chi non ce l’aveva.
Nel mio caso la narrativa scaturisce senza sforzo. Il saggio invece nasce con fatica dal mondo dolente e spezzato in cui mi sveglio ogni mattina.
In tutti gli scritti pubblicati in oltre vent’anni di attività letteraria, nella scrittura di Arundhati Roy emerge chiaro e forte il tentativo sisifeo delle donne indiane di liberarsi da una sottomissione millenaria. Senza cedere a un facile vittimismo, proprio come la sua Ammu, protagonista del suo primo romanzo. Nella madre con due gemelli che decide di lasciare il marito violento, pur sapendo che le donne che hanno divorziato diventano “fuori casta“, si celano i volti di molte altre donne invisibili, ma che continuano a lottare nonostante tutto.
Tornata al romanzo solo nel 2017, con Il ministero della suprema felicità, nelle interviste degli ultimi anni Arundhati Roy ha però faticato a trattenere il suo senso di smarrimento di fronte a una realtà sociale che continua a non cambiare. Accusata di andare contro la sua stessa patria, in un’intervista di qualche tempo fa a Repubblica ha detto di preferire “lo spettacolo di un fiume che scorre nella valle” all’esaltazione di una bandiera. Instancabile testimone di ingiustizie e sfruttamenti delle fasce più deboli, non perde però la speranza.
In fondo gli esseri umani, pure incapaci di vivere senza guerre, sono anche incapaci di vivere senza amore.
Il dio delle piccole cose racconta la storia di Ammu, figlia di un alto funzionario, lascia un marito violento e torna a casa con i suoi bambini, i gemelli Estha e Rahel, maschio e femmina. Ma nell’India meridionale dei tardi anni Sessanta, una donna divorziata come lei si ritrova priva di una posizione sociale riconosciuta, soprattutto se commette l’errore di innamorarsi di un paria. I gemelli vogliono bene a Velutha, l’intoccabile che la madre può amare solo in segreto, e attraverso il loro sguardo, capace di cogliere le piccole cose e i piccoli eventi, prende forma la storia di un grande amore, in cui si riflette il tema universale dei sentimenti in conflitto con le convenzioni. Nei loro pensieri e nelle loro parole risuona la critica più radicale a ogni legge che stabilisce chi si deve amare, e come, e quanto.
Il ministero della suprema felicità ci accompagna in un lungo viaggio nel vasto mondo dell’India: dagli angusti quartieri della vecchia Delhi agli scintillanti centri commerciali della nuova metropoli, fino alle valli e alle cime innevate del Kashmir dove la guerra è pace, la pace è guerra e occasionalmente viene dichiarato lo “stato di normalità”. I suoi protagonisti, spezzati dalla realtà in cui vivono, si salvano grazie a una cura fatta di gesti d’amore e di speranza. Ed è per questa ragione che, malgrado la loro fragilità, non si arrendono.
Il mio cuore sedizioso raccoglie vent’anni dell’opera di Arundhati Roy, un lungo periodo in cui la scrittrice ha scelto l’inchiesta, il saggio politico, la testimonianza personale, il resoconto narrativo, come mezzi per condurre le sue battaglie per la giustizia, i diritti e la libertà in un contesto che diventava sempre più ostile.
In marcia con i ribelli racconta il vero viaggio compiuto dalla scrittrice attraverso un’India sconosciuta, il cui orizzonte fisico ed economico negli ultimi decenni è stato completamente ridisegnato dalle multinazionali. Con la connivenza del governo, le grandi aziende si sono impadronite delle terre, delle foreste, delle vite delle popolazioni locali in maniera del tutto illegittima e anticostituzionale. Ma i poveri di questi villaggi hanno deciso di fare fronte comune e di unirsi alla ribellione maoista per guidare la più grande democrazia del mondo verso un futuro alternativo al capitalismo selvaggio e all’avidità dilagante.
In Cose che si possono e non si possono dire, Arundhati Roy e l’attore John Cusack raccontano il loro incontro con i due più celebri whistleblower americani: Daniel Ellsberg, funzionario del Pentagono che nel 1971 rivelò i piani della guerra in Vietnam, ed Edward Snowden, informatico ed ex tecnico della CIA che nel 2013 denunciò le intercettazioni a tappeto condotte dalla National Security Agency. Il libro si domanda che significato abbiano davvero le bandiere, il patriottismo, le grandi organizzazioni internazionali e quale ruolo ricoprano il dissenso e la ricerca della verità in una realtà in cui il denaro può liberamente varcare limiti e confini sociali, culturali, geografici.
I fantasmi del capitale parte da Antilla, la residenza indiana del magnate Mukesh Ambani: ventisette piani di lusso che stridono rispetto alle condizioni della maggior parte della popolazione. Arundhati Roy descrive la guerra in atto per il possesso della terra nella giungla dell’India centrale sotto assedio, con trecentocinquantamila persone obbligate ad abbandonare i loro villaggi e migliaia di suicidi; le decine di migliaia di torturati e i settantamila morti in Kashmir. E dietro tutto questo si agitano i fantasmi che muovono i grandi capitali mondiali e manipolano le scelte della politica: le ricche fondazioni americane, la Banca Mondiale, le ONG.
Web content writer e traduttrice. Parlo poco, scrivo tanto e cito spesso Yeats.
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