“Ci sono voluti anni per ricostruire il passato cercando di capire quello che mi era successo e come ne ero uscita.” Fin dalle prime pagine del suo libro, Hanna Kugler Weiss manifesta la stessa difficoltà condivisa con molti altri sopravvissuti alla persecuzione nazi-fascista. Per parlare di quell’orrore è servito tempo, molto tempo, ma c’era almeno un buon motivo per farlo.

L’idea di scrivere le mie memorie è nata dal desiderio di raccontare ai miei nipoti e, soprattutto, ai mie figli la mia storia. I miei figli sapevano che ero una sopravvissuta della Shoà poiché vedevano il numero tatuato sul mio braccio sinistro, però mai mi hanno chiesto particolari e io mai ho raccontato.

Nel 1968 Hanna Kugler Weiss inizia a parlare della sua esperienza ad Auschwitz-Birkenau di fronte a centinaia di persone o agli amici, ma non ai figli.

Mi avrebbero rispettato se avessero saputo che la loro madre, durante quasi nove mesi, aveva vissuto come una persona sporca, lercia, affamata, piena di scabbia e pidocchi e sembrava un cadavere? Come potevo spiegare loro che in quei mesi feci la doccia forse sette volte e sempre per pochi minuti, senza sapone e senza asciugamano; che dopo la doccia, ancora grondante d’acqua, rivestivo gli stracci di prima; che nelle latrine non esisteva la carta, che non sempre ero in possesso di mutande, che non mi lavavo i denti, che non mi pettinavo, che non mi lavavo le mani prima di mangiare, che ero capace di raccogliere dalla mota ogni cosa che sembrava commestibile!

Racconta! Fiume-Birkenau-Israele

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Il racconto di Hanna Kugler Weiss, italiana di origine ebraica, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz dopo 270 giorni di prigionia.
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Nata nel 1928 a Fiume, all’epoca ancora italiana, Hanna Kugler Weiss è figlia di due ebrei osservanti. Quando le leggi razziali di Mussolini la costringono ad abbandonare la scuola ha solo dieci anni, ma la sua vita serena di bambina sembra essere ormai un ricordo lontano. Appena prima della guerra, il fratello Moshe riesce a trovare rifugio in Palestina, ma per il resto della famiglia la situazione precipita. Il padre viene arrestato, mentre Hanna resta sola in città con la madre, la nonna e le sorelle Gisella e Maddalena.

Dopo l’annessione di Fiume al Terzo Reich, nel 1943, cercano di fuggire, prima verso la Romagna e poi verso la Svizzera. La loro fuga, insieme ad altri ebrei, viene segnala alla milizia fascista e poi ai nazisti: tutti vengono arrestati. Il 16 maggio del 1944 Hanna Kugler Weiss arriva ad Auschwitz-Birkenau, dove rimarrà fino al 27 gennaio 1945 dall’esercito russo dopo la liberazione del campo grazie ai russi. In un articolo per la Rivista di Estetica, ricorda quei terribili giorni e il momento in cui iniziò davvero a sentirsi sola.

Il mio crollo iniziò quando mia sorella Ghisi, che era stata deportata con me e che era stata per mesi mia compagna di baracca, si ammalò gravemente e venne ricoverata in infermeria. Avevo già perso la mamma, la nonna e Magdiza, la mia sorellina piccola, che non avevano passato la selezione; non avevo avuto nemmeno il tempo di separarmi da loro. Eravamo appena scese sulla rampa, e d’un tratto, semplicemente non le avevo più viste. Quando fui costretta a capire quello che era successo, alcuni giorni dopo – quando fui costretta a comprendere il significato delle fiamme dei crematori – in qualche modo trovai la forza per sopravvivere, ma la separazione da Ghisi mi schiantò. Fin quando c’era stata lei, mi era parso di dover resistere per poterla aiutare, per sostenerla. Ora, per la prima volta, ero veramente, profondamente sola.

Quando i tedeschi se ne vanno, prima dell’arrivo dell’Armata Rossa passa una lunga settimana. Hanna ritrova finalmente la sorella Maddalena, ma senza cibo e senza nessuno che possa rassicurarle, nulla sembra essere più certo. Si accorge di non conoscere più il mondo fuori, ma è il primo incontro con i soldati sovietici a risvegliare la speranza.

Non sapevo più che ci fosse un mondo, fuori da Birkenau, non ricordavo di aver avuto un luogo che mi appartenesse. In quel momento capii: Birkenau non era casa mia, avevo una casa, avevo un padre che mi aspettava, un fratello in Israele, dovevo tornare in Italia.

La Shoah dei bambini. La persecuzione dell'infanzia ebraica in Italia (1938-1945)

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Hanna Kugler Weiss torna così in Italia con la sorella e ritrova il padre, fortunatamente sopravvissuto. Decide di studiare per diventare infermiera e poi, nel 1949, parte per Israele, dove si ricongiunge con il fratello. La vita ricomincia: si sposa e diventa madre per tre volte, ma manca ancora qualcosa. Quando racconta per la prima volta la sua storia, improvvisamente tutti i ricordi della vita nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau si affollano nella sua mente.

Ho parlato solo di quello. Non dell’arresto, della deportazione, del ritorno, ma del campo. Credo di essere andata avanti ininterrottamente per un’ora e mezzo. Alla fine ero stordita, non ricordavo quasi nulla di quello che avevo detto. Non ero io ad aver parlato; era quell’Hanna di sedici anni, che era lì, a Birkenau. Quando, qualche tempo dopo, ascoltai la registrazione, cominciai a capire delle cose che prima non mi avevano mai disturbato; pian piano arrivai a rendermi conto che avevo fatto parte di quella grande cosa che si chiama Shoah. Ero stata una pietrina in quel grande, grande muro. Ma ci sono voluti degli anni, per comprenderlo.

E c’è voluto tempo anche per chi non voleva accettare che fosse successo davvero.

Chi ci sentiva, credeva che fossimo diventati matti: non potevano comprendere, e d’altra parte noi non sapevamo nemmeno come farci capire. […] Sapevamo che era successo, certo; lo avevamo visto, lo avevamo patito, lo avevamo sempre negli occhi, ma come far capire a un altro una cosa che resta incomprensibile a te per prima?

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