“Auschwitz è patrimonio di tutti. Nessuno lo dimentichi, nessuno lo contesti. Auschwitz rimanga luogo di raccoglimento e di monito per le future generazioni”, si conclude così il libro di memorie Auschwitz è di tutti, scritto da Marta Ascoli. Rimasta viva nonostante tutto, continuò a raccontare la sua storia di sopravvissuta all’Olocausto per tutto il resto della sua lunga vita.

Scomparsa nel 2014 a 87 anni, ci ha però lasciato una testimonianza che non perde forza e deve continuare a essere raccontata. Lei, che a lungo si è adoperata per mantenere viva la memoria, nella sua autobiografia aveva raccontato di essere tornata sconfitta e segnata per sempre dalla sua permanenza nel campo di concentramento.

Dopo le esperienze passate, per molti anni sono stata ossessionata da incubi: il fischio dei treni, il fumo delle ciminiere, il sentir gridare in tedesco ancor oggi mi fa sussultare e tuttora, anche se saltuariamente, faccio sogni attinenti a quel lager infernale. L’esperienza che ho attraversato ha cambiato molto il mio carattere, minando la mia volontà, una volta ferrea, e riuscendo a farmi perdere il mio ottimismo e la fiducia nel prossimo.

Auschwitz è di tutti

Auschwitz è di tutti

Il racconto in prima persona di Marta Ascoli, sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz: durante la sua vita è stata una delle testimoni più attive della Shoah.
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La vita prima dell’orrore

Nata a Trieste nel 1926, Marta Ascoli era figlia di padre di origine ebraica e madre cattolica, ma fu battezzata e crebbe come cattolica. Questo non riuscì comunque a salvarla dalla deportazione, il 19 marzo del 1944: quando andarono a prelevarla dalla sua vita quasi normale di adolescente, il suo era un “mondo pieno di sogni e di aspettative” e stava ancora vivendo “un’età in cui ci si nutriva di illusioni e tutto ci accontentava e ci faceva sorridere”.

Studentessa brillante dell’ultimo anno delle magistrali, a soli 17 anni fu arrestata e condotta insieme al padre alla Risiera di San Sabba, da dove dieci giorni dopo partirono insieme per il campo di concentramento di Auschwitz a bordo del convoglio n.25T. Giunti a destinazione nei primi giorni di aprile, le loro vite si separarono per sempre: suo padre fu subito mandato nelle camere a gas, mentre lei venne mandata a lavorare insieme ad altre donne che per caso erano riuscite a evitare la morte.

La cosa più assurda era che non sempre si era scelte perché ritenute inabili al lavoro, sistema crudele ma che aveva per i nostri aguzzini una sua logica. Talvolta usavano il sistema di contarci ogni tre, ogni quattro, a caso, e ridendo segnavano il nostro numero sul taccuino, decidendo la nostra fine.

Pochi mesi dopo, il 16 agosto dello stesso anno, i tedeschi mandarono una lettera alla madre di Marta Ascoli, rimasta a Trieste. Le comunicarono che il marito e la figlia erano morti tragicamente vicino a luglio, in seguito a un attacco terroristico. La giovane era invece ancora viva e, con il numero 76749, stava ancora lottando contro le terribili condizioni di Auschwitz.

Nel poco tempo che ci era concesso per mangiare la zuppa, le SS che erano di turno, donne incluse, per ragioni insignificanti e spesso anche senza motivo alcuno sceglievano parecchie persone, obbligandole a correre senza fermarsi avanti e indietro, o a inginocchiarsi a lungo o a portare grosse pietre finché cadevano sfinite. Quando crollavano a terra, e ciò succedeva spesso, i militi intervenivano con bastonate e ridevano tra di loro. Credo che questo si possa definire con una sola parla: sadismo.

L’inferno vissuto da Marta Ascoli

Mentre i russi si avvicinavano sempre di più, nel mese di dicembre Marta fu trasferita come tanti altri ebrei nel campo di Bergen-Belsen. “Tu da qui non uscirai che per il camino”, continuavano a ripetere le SS agli ebrei e quella frase risuonava come una condanna a morte nella sua mente. Ma la fine non sembrava mai arrivare, anzi, le condizioni dei detenuti del campo peggioravano.

Un pensiero mi assillava: morire prima possibile per evitare il prolungarsi di atroci sofferenze. Io che avevo cercato di resistere fino all’ultimo, ero ormai distrutta. Invocavo la morte che si attardava su di me, invidiavo chi al mio fianco aveva finito di soffrire. Cercavo solo il modo di chiudere al più presto questa indicibile agonia. Mi alzai dal mio giaciglio e scavalcai i corpi dei morti e dei vivi accanto a me; non potevo più sopportare i loro gemiti, la loro agonia e il fetore che c’era nella baracca; io stessa ero nelle loro condizioni e sapevo di essere impotente a portare qualsiasi aiuto.

Fu proprio la disperazione a spingerla a tentare la fuga, fermata però da una guardia del campo.

Sorreggendomi a fatica mi inoltrai nella zona boscosa che si trovava ai lati delle baracche e mi avvicinai al filo spinato che circondava tutto il comprensorio. […] Giunta nei pressi della recinzione, un milite che io ritenni molto giovane mi vide e avanzò verso di me. Mi intimò di spostarmi, ma io non mi mossi, lo guardai fisso e lo supplicai di spararmi. A questo punto egli si voltò e senza dire nulla si allontanò nella direzione opposta. […] Il mio tentativo fallì, ma il gesto sta a dimostrare a che punto fosse giunta la mia disperazione, sapendo che mi attendeva una fine atroce assieme agli altri.

La liberazione, per mano degli inglesi, giunse solo il 15 aprile del 1945. Debilitata e fragile, con il suo numero tatuato per sempre sul braccio, Marta Ascoli tornò a Trieste, dove l’accolse la madre, incredula. Dopo essersi ricostruita una nuova esistenza, con un marito e due figli, attese più di mezzo secolo per ripercorrere tutta la sua storia in un libro.

Il Lager non è mai uscito dal mio cuore e dal mio cervello. Niente potrà riparare la ferita subita, ma sono convinta che noi ex-deportati possiamo fare qualcosa per gli altri, il mio ricordo non può e non deve rimanere chiuso tra le mura di casa, all’interno della famiglia, sento che la mia sventura riguarda tutti, le vittime di ogni violenza, ma anche chi continua a pensare all’altro come nemico da annientare, da liquidare.

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