Giuliana Fiorentino Tedeschi e il corpo delle donne nei campi di concentramento

"Eppure qualcosa brillava ancora in quell'oscurità e c'era soprattutto la sete di cultura, mai dimenticata, l’esigenza dello spirito non ancora spenta, che ci faceva soffrire nella vana fatica di concentrazione, ma che distraeva dal ritmo monotono e vuoto delle pale, dalla visione di centinaia di esseri, inutili e meccanici."

Primavera del 1944: Giuliana Fiorentino Tedeschi viene deportata ad Auschwitz-Birkenau insieme al marito. Sono riusciti a mettere in salvo le loro due figlie, ma alla fine della guerra sarà solo lei a poterle riabbracciare e a raccontare la sua dolorosa storia nel libro Questo povero corpo, narrazione di quell’anno terribile nel campo di sterminio.

Questo povero corpo

Questo povero corpo

Il racconto di Giuliana Fiorentino Tedeschi, tra le prime testimoni della Shoah: fu deportata ad Auschwitz con il marito e la suocera, ma riuscì a sopravvivere.
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Molti anni dopo, nel 1988, Giuliana mette nuovamente mano ai suoi ricordi e pubblica C’è un punto della terra… Una donna nel lager di Birkenau. C’è un passaggio straziante, tra i tanti, in cui racconta l’orrore delle donne costrette a portar via le carrozzine vuote dal crematorio.

C'è un punto della terra... Una donna nel Lager di Birkenau

C'è un punto della terra... Una donna nel Lager di Birkenau

Il racconto di Giuliana Fiorentino Tedeschi, sopravvissuta ad Auschwitz e tra le prime a raccontare la sua esperienza di deportata italiana in un campo di concentramento nazista.
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Le donne entrarono per la gran porta e sostarono nell’atrio. Le attendevano colà cinquanta carrozzine da bimbo. Il tedesco ordinò a ciascuna di prendere una carrozzina e di spingerla, in fila per cinque, per tre chilometri fino al magazzino dove veniva raccolto e smistato il bottino dei convogli. La tensione nervosa si attenuò, ma su ogni volto si stampò una piega di dolore. Lo strano corteo si mosse: le madri che avevano lasciato dei figli lontano poggiavano le mani sul manubrio cercando istintivamente la posizione più naturale, alzando dinanzi agli ostacoli prontamente le ruote anteriori. Vedevano giardini, viali, bimbi rosei addormentati nelle carrozzine sotto vaporose copertine rosa e celesti.

Una visione tragica e colma d’orrore, che unisce chi è stata madre e chi non lo è ancora diventata.

Le donne che avevano perduto i bambini al crematorio provavano lo struggimento fisico di aver un piccolo attaccato al seno e non vedevano che un lungo pennacchio di fumo che si perdeva nell’infinito. Quelle che non erano state madri, spingendo maldestre le carrozzine, pensavano che mai lo sarebbero diventate e ringraziavano Dio. E tutte le carrozzine vuote stridevano, sussultavano e si urtavano con l’aria stanca e desolata degli esuli perseguitati.

Molti anni dopo, in un’intervista raccolta nel libro Come una rana d’inverno di Daniela Padoan, Giuliana Fiorentino Tedeschi spiega che “le donne hanno vissuto l’esperienza del lager in maniera più sfaccettata e ricca”.  Non c’è solo la “macchinetta fredda che ti solca il cranio”, portandoti via tutti i capelli: tutto è “uno strappo continuo, un attacco alla nostra stessa identità femminile. I capelli, la nudità, l’immediata solitudine e, soprattutto, il distacco dai figli”. E il corpo nudo, violato e scheletrico delle donne è al centro dei suoi racconti.

Nata nel 1914 a Milano, dove torna dopo gran parte dell’infanzia passata a Napoli, Giuliana Fiorentino Tedeschi era già madre, prima di essere strappata alla sua casa. Laureata in glottologia, le era stato impedito l’accesso all’insegnamento per via delle leggi razziali del 1938. Aveva però la sua famiglia: sposata con l’architetto Giorgio Tedeschi, aveva dato alla luce Rossella ed Erica. Nel 1939 si era trasferita a Torino, la città d’origine del marito. Ed è nel capoluogo piemontese che, l’8 marzo del 1944, viene arrestata insieme al coniuge e alla suocera, Eleonora Levi.

Tutti e tre sono spediti prima nel campo di transito di Fossoli e poi, il 5 aprile dello stesso anno, deportati ad Auschwitz, dove li separano. La suocera viene mandata subito nel forno crematorio, mentre Giuliana finisce sola a Birkenau con il n. 76847. Il marito, invece, muore il 25 gennaio 1945 nella marcia di evacuazione: solo pochi giorni prima, lei era sopravvissuta allo spostamento verso il campo di concentramento di Ravensbrück.

Dopo diverse traversie, nell’aprile del 1945 Giuliana Fiorentino Tedeschi viene liberata da russi e francesi. Può ritornare dalle sue figlie e riprendere a vivere la sua vita, senza poter dimenticare l’orrore. Diventa insegnante, scrive molti libri e si dedica alla sua attività di testimone, ma niente è più come prima. Se ne va nel 2010, dopo una lunga vita dedicata alla memora e all’insegnamento.

Ed ora che sono ritornata dopo venti mesi e non ho ritrovato quello che avevo lasciato “ieri”, sento che quel mondo passato ha cessato di appartenermi. La mia vita attuale è una nuova vita, senza continuità, senza passato. La vita del Lager ha segnato un taglio netto, ha posto come una barriera, che ora mi pare ancora insormontabile. Quello che è adesso, è nuovo e ricomincia da capo, il passato spogliato dall’elemento della continuità ha qualcosa di letterario e di impersonale.

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