A Jean Rhys e a ogni ragazza senza una vita perfetta
"Sono una straniera e lo sarò sempre e, dopotutto, non m’importava poi così tanto": vita e opere di Jean Rhys, grandissima e ingiustamente dimenticata scrittrice del Novecento
"Sono una straniera e lo sarò sempre e, dopotutto, non m’importava poi così tanto": vita e opere di Jean Rhys, grandissima e ingiustamente dimenticata scrittrice del Novecento
C’erano mattine in cui, aprendo gli occhi nel letto della sua casa in Dominica, Jean Rhys si svegliava con il sorriso sulle labbra, nonostante le zanzare e il clima afoso. “Caro Dio, fammi diventare nera, per favore”, pregava tra sé e sé, prima di addormentarsi. E capitava che, per alcuni secondi, provasse la sensazione che Lui avesse davvero esaudito il suo desiderio: ma, ovviamente, ciò non accadde mai.
Se per uno scherzo kafkiano la mutazione si fosse compiuta dal giorno alla notte, la vita dell’allora giovanissima scrittrice sarebbe stata diversa. Forse non sarebbe scappata per tutta la sua vita da quel senso di inadeguatezza che non l”abbandonava mai, da quell’impossibilità di far parte di un’idea di società ben definita. E molto probabilmente non avrebbe nemmeno scritto capolavori come Buongiorno, mezzanotte.
Protagonista del romanzo è Sasha, una donna che non riesce a darsi pace, trascinandosi da Parigi a Londra con l’aspetto più accettabile possibile. Si illude che gli altri non vedano, dietro la facciata, le lacrime ingoiate a fatica perché “l’importante è non piangere in pubblico, se possibile nemmeno in privato”, la depressione, la solitudine. “Nessuno potrebbe indovinare che ci sono stata dentro fino al collo”, ripete a se stessa, guardandosi allo specchio, ma in fondo non ci crede nemmeno lei.
Per favore, vi prego, monsieur e madame, signore, signora e signorina, ce la sto mettendo tutta per essere come voi. Non ci riesco e lo so. Ma ce la metto tutta. Tre ore per scegliere un cappello; a ogni risveglio, un’ora e mezzo per cercare di avere l’aspetto che hanno tutti gli altri. Ogni parola che dico ha una catena alla caviglia, ogni pensiero è gravato da grossi pesi.
Ci sono persone che costruiscono vite intere sul fatto di avere qualcosa di diverso dagli altri. Jean Rhys, invece, non usò mai la sua componente autobiografica come un’arma, se non contro se stessa. Nata il 24 agosto del 1890 a Roseau, piccola capitale dell’ex colonia britannica inglese nei Caraibi, il suo vero nome era Ella Gwendolyn Rees Williams ed era figlia di un medico gallese e di una donna creola di origine scozzese. Cresciuta in un’ex piantagione, immersa nella cultura caraibica e nel dialetto patois, si sentì subito diversa dalla comunità bianca.
Ai balli e alle feste eleganti, organizzati dai coloni per ricordare i giorni in cui si sentivano padroni delle vite degli schiavi, preferiva i racconti degli ex schiavi, tra leggende antiche e riti voodoo. Il ricordo di quest’infanzia lacerata tra due mondi, quello artificioso e decadente dei bianchi e quello lussureggiante ed esotico della comunità locale, riemerse continuamente nelle sue opere, così come nella sua autobiografia, Smile, please.
Non sarei mai stata parte di niente. Nessun posto poteva darmi un senso d’appartenenza, e lo sapevo, e tutta la mia vita sarebbe stata uguale: cercare d’appartenere e non riuscirci. Qualcosa andava sempre storto. Sono una straniera e lo sarò sempre e, dopotutto, non m’importava poi così tanto.
A causa del difficile rapporto con la madre, a sedici anni Jean Rhys venne spedita da una zia in Inghilterra e iscritta in una scuola femminile a Cambridge. Iniziò una nuova era da reietta per lei, scherzata dalle compagne per via del suo accento diverso. Persino alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra, dove frequentò corsi di recitazione, veniva presa di mira dagli insegnanti, che la esortavano a migliorare il suo inglese. Alla fine la ebbero vinta loro: scrissero a suo padre, consigliandogli di toglierla dai corsi, e lui accettò il consiglio, richiamandola nei Caraibi. Lei si rifiutò di obbedire e decise di restare in Gran Bretagna, lavorando come ballerina di fila e riscuotendo un certo successo, ma qualcosa continua sempre a sfuggire alla sua presa.
Spostandomi di stanza in stanza in questo scuro, freddo paese che era l’Inghilterra, non seppi mai cosa mi spronasse e mi desse l’assoluta certezza che ci sarebbe stato sicuramente qualcosa per me tra poco.
Dopo la morte del padre, nel 1910, Jean Rhys si gettò nella vita mondana, trovando momentaneo conforto tra le braccia del ricco finanziere Lancelot Grey Hugh Smith, che non volle mai sposarla, sebbene di tanto in tanto provvedesse al suo sostentamento. Dopo un aborto che quasi le costò la vita, un impiego come modella di nudo e il lavoro da volontaria durante la Prima Guerra Mondiale, conobbe il primo dei suoi tre mariti, da cui ebbe due figli.
Non fu una vita sentimentale serena, la sua: l’uomo più importante della sua vita forse fu quello che mai sposò, lo scrittore Ford Madox Ford, conosciuto a Parigi negli Anni Venti. Fu lui a spingerla a scrivere, riconoscendo il suo talento e il suo istinto letterario e convincendola ad adottare il nom de plume di Jean Rhys. Seguì una storia, ma lui era già sposato e lei, in fondo, era sempre la ragazza che passava da un café all’altro, cercando qualcosa di ineffabile.
Quando esco in place de l’Odéon mi sento felice, perché ho i capelli nuovi, il cappello nuovo, perché ho fatto una lauta cena, per il vino, la fine e il caffè, e perché sento l’odore che ha Parigi di notte. Questa sera non andrò in nessun orrendo bar, no, no, voglio musica e gente che balla. Ma dove vado, da sola? Bene, un altro bicchiere, e ci penso sopra.
“Le donne non devono dare fastidio. Io non do fastidio; sorrido e sopporto, e penso che anche le altre dovrebbero sorridere e sopportare“, scrisse nelle sue memorie. E con lo stesso spirito mimetico, Jean Rhys cominciò ad allontanarsi dalla vita pubblica negli Anni Quaranta. Passò gli ultimi anni a perfezionare il suo libro più apprezzato dalla critica, Il grande mare dei sargassi, uscito nel 1966 quando già si era ritirata a vivere nel Devon. Morì nel 1979, prima di riuscire a terminare la sua autobiografia: nel frattempo, erano arrivati i premi e il successo, ma era troppo tardi.
Buongiorno, mezzanotte, l’opera oggi più famosa di Jean Rhys, è ambientato nella Parigi degli anni Trenta, dove ogni alberghetto è uguale all’altro e ogni café può celare un nuovo, tormentoso incontro. La protagonista è una donna che scopre di non essere più giovane insegna a se stessa l’arte del distacco. E Londra, dove presto dovrà tornare, non le riserva niente di meglio: per Sasha, ormai, si tratta solo di dimenticarsi “dei vicoli bui, dei fiumi bui, del dolore, della lotta”, delle “voci che loro usano come pugnali”.
Io una volta abitavo qui è una raccolta di racconti che ripercorre la vita di Jean Rhys. La prosa tagliente, rarefatta, la spietata onestà, l’allarmante esibizione dei meandri più bui dell’io: sono i tratti essenziali della scrittrice, che gettava la vita in pasto ai suoi racconti come chi di vite ne abbia vissute troppe e le disconosca tutte. Bambina col vestito di piquet in una Dominica insieme sordida e fiabesca, riluttante collegiale espatriata in Inghilterra, ballerina di fila, comparsa del demi-monde londinese, vedova bianca di un carcerato olandese, parigina derelitta e affamata, protégée di Ford Madox Ford, e infine anziana solitaria nel piovoso Devonshire: tante sono state le sue identità, che oggi continuano a sorprendere il lettore.
Di Julia Martin, protagonista di Addio, Mr Mackenzie, sappiamo solo quanto racconta agli uomini che la mantengono: che forse è stata sposata, che forse ha avuto un bambino, che forse è cresciuta in qualche paese straniero. Del resto a chi passa una notte con lei non importa sapere chi sia veramente quella silhouette con il suo buffo costume di scena: turbante, veletta, un cappottino di seconda mano, un mazzo di violette stretto nel pugno. Del resto neanche a Julia importa sapere quello che pensano gli altri, lei ha sempre qualche credito da riscuotere, e non tradirebbe quello che ritiene l’unico modo sensato di vivere: “Se un taxi suona il clacson prima che abbia contato fino a tre vado a Londra, se no niente”.
Quartetto racconta la storia di Marya, giovane inglese sposata con il polacco Stephan, che si sente, per la prima volta nella sua vita, “molto vicina a essere felice”. Ed ecco che, da un giorno all’altro, il marito finisce in galera lasciandola senza un soldo né un amico al mondo. L’agognata felicità assume allora per un istante le sembianze di Heidler, facoltoso mercante d’arte, che però la trascina – sotto gli occhi compiacenti e maligni della moglie – in una lunga, torpida ossessione. Sullo sfondo di una Parigi mai così crudele, in una Rive Gauche ingannevolmente romantica e mondana, Marya finisce per trovarsi avviluppata in un tormentoso ménage à trois; e quando, con un palpito di disperata onestà, prova a lacerare il velo delle apparenze, comprende che in quell’irrespirabile bohème i codici sociali pesano quanto e più che altrove.
Considerato dalla critica il miglior romanzo di Jean Rhys, Il grande mare dei sargassi è ambientato in Giamaica, intorno al 1830, in un mondo dove “tutto era fulgore e tenebra”. Da una parte i riti voodoo e le storie della servitù di colore, dall’altra la calma ferocia dei bianchi, l’intrico delle loro vendette e inganni – e tutto accolto in una natura che stordisce col suo splendore: così appaiono le cose alla piccola Antoinette, che già si sente avvolta in un destino avverso.
Web content writer e traduttrice. Parlo poco, scrivo tanto e cito spesso Yeats.
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