“Non appartengo ai paradisi artificiali di Palazzeschi, né agli inferni lussuriosi di Ungaretti; sono un uomo che ha vissuto al cinque per cento, e appartengo al limbo dei poeti asessuati. E guardo al resto del mondo con paura”, così Eugenio Montale si descrisse all’amica Annalisa Cima, che curò il suo Diario postumo e che fu una delle sue muse in absentia. Tante donne cantate e celebrate, con cui ha condiviso anni di amicizie profonde che sembravano amore, ma senza diventarlo veramente.

Tra di loro ci fu anche Maria Luisa Spaziani, traduttrice e poetessa: si conobbero quando lei aveva 25 anni e lui 53. Nacque subito un rapporto speciale, che lei raccontò in’intervista a Repubblica del 2011, in occasione dei trent’anni dalla morte di Montale, e in un libro intitolato Montale e la Volpe. Ricordi di una lunga amicizia.

Avevo venticinque anni e morivo dalla voglia di incontrarlo. Conoscevo a memoria “Ossi di seppia” e qualche poesia delle “Occasioni”. Accadde al Teatro Carignano, nel gennaio del 1949. Montale mi guardò con un’intensità così forte che ne rimasi turbata.

Nata il 7 dicembre 1922 e scomparsa a Roma nel 2014, la Spaziani apparteneva a un’agiata famiglia torinese. Ancora studentessa, iniziò a dirigere una piccola rivista letteraria, su cui fece pubblicare inediti di autori come Virginia Woolf e Umberto Saba. Dopo la laurea, con una tesi su Proust, il suo debutto come poetessa coincise proprio con il primo incontro con Montale, seguito da un invito a pranzo a casa dei suoi genitori, che accolsero l’ospite speciale senza batter ciglio.

La mia era una famiglia borghese molto accogliente, che assecondava le mie passioni letterarie. Proust soprattutto, ma anche Montale. “Meno male che Proust è già morto”, fu il commento di mia madre alla notizia dell’illustre convitato. Eugenio ci avrebbe riso sopra, scusandosi poi con i miei genitori: “Mi dispiace non essermi ancora reso defunto”.

Subito dopo il pranzo, iniziò un corteggiamento del tutto platonico. Maria Luisa Spaziani si trovò di fronte un uomo diverso da quello che immaginava, che la faceva ridere e che era capace di gesti impensabili, come quello di mettersi a ballare per lei.

Dopo il pranzo in famiglia, tornato al Corriere mi mandò un espresso. Poi sarebbero arrivate le gardenie, i profumi ricercati, le tenerezze, le poesie d’amore. Ma già durante il piccolo convivio era apparso un po’ sovreccitato. Ebbe l’idea di mostrarci come aveva visto danzare una baiadera durante una sua visita in Libano. Si alzò da tavola, prese un grosso tovagliolo e con passetti di danza cominciò a sventolarlo a destra e sinistra. Luigi Pareyson, che aveva studiato la radice metafisica della sua poesia, lo guardava atterrito.

Lui era affascinato dalla sua vitalità, ma a unirli c’era anche un “terreno infuocato di interessi e curiosità”, a partire dal mondo letterario, ma anche la voglia di giocare e ridere.  Non a caso, nella sua raccolta La Bufera del 1956, Montale scrisse questa dedica “Alla Volpe, che non soltanto mi regala la luce della sua giovinezza, quanto mi restituisce la mia che non ho mai avuta”. Proprio la Spaziani racconta come siano nati i soprannomi che hanno contraddistinto la loro amicizia.

Un giorno lo vidi appoggiato al banco di un’agenzia di viaggio, metteva il piede all’interno come fanno gli orsi. “Mi sei sembrato un orso”, gli dissi. Ecco, fece lui, l’Orso va bene con la Volpe.

Non c’era solo la Volpe nella vita di Montale. C’era la Mosca, Drusilla Tanzi, rimasta al suo fianco per una vita intera e che sposò solo nel 1962, un anno prima della sua morte. E poi c’era Clizia, ovvero Irma Brandeis, con cui il poeta ebbe una lunga corrispondenza epistolare dal 1933 al 1939.

Montale scelse Drusilla, ma non fu certo una scelta facile. La Spaziani raccontò come le cose sarebbero potute andare in maniera diversa, se lei non avesse deciso di sposare lo scrittore e filosofo Elémire Zolla, con cui restò per soli due anni, dal 1958 al 1960.

La verità è che mi chiese di sposarlo più volte, ma io nutrivo affetto e solidarietà per Elémire Zolla, che era molto malato di tubercolosi. Eugenio ed io non avemmo coraggio di staccarci da queste due persone. L’ultima volta che ci incontrammo mi disse una petite phrase che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Tradotta in prosa quotidiana, significa che in una futura esistenza avremmo saputo organizzarci meglio. […] Lui continuava a pensare di avermi rovinato la vita. Io volevo dimostrargli che non mi aveva rovinato niente. Sposando Zolla, non sarebbe cambiato niente sul piano degli affetti. Eravamo sempre Montale e la Volpe.

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