Salman Rushdie e quei "versi satanici" costati la vita a tante persone
Il 14 febbraio 1989 l'Ayatollah Khomeini pronunciò la sentenza di morte per lo scrittore anglo-indiano, che ancora oggi vive sotto scorta
Il 14 febbraio 1989 l'Ayatollah Khomeini pronunciò la sentenza di morte per lo scrittore anglo-indiano, che ancora oggi vive sotto scorta
Il 14 febbraio 1989, in un giorno in cui a Londra come in molti paesi dell’Occidente si celebrava l’amore, dall’Iran giunse una condanna a morte, pronunciata dell’Ayatollah Khomeini. Anzi, una fatwa, rivolta a uno scrittore di origine indiana, ma con una formazione accademica inglese. Lui era Salman Rushdie e la sua colpa era quella di aver scritto e pubblicato un romanzo di fantasia, ascrivibile nel genere del realismo magico, intitolato I versi satanici. Da quel giorno la sua vita, e quella di molte altre persone, non fu più la stessa.
Raccontando le vicende di due indiani musulmani scampati a un disastro aereo, in chiave visionaria, il libro tratteggiava uno scontro molto più simbolico, ovvero quello tra il Bene e il Male. A scatenare l’ira di molti fedeli islamici e del capo spirituale e politico iraniano, fino all’invocazione della punizione estrema, era stata però l’allusione a un passaggio specifico del Corano. Salman Rushdie aveva infatti rivisitato l’episodio in cui Mahound, presunto alter ego “satanico” di Maometto, riconosceva la presenza di un culto di tre divinità femminili. Un contesto religioso e culturale difficile da comprendere per gli occidentali, ma che per molti musulmani rappresentava una blasfemia da punire con la morte.
La fatwa, mai ritirata, ebbe altre conseguenze gravi, oltre a quella di minare per sempre la sicurezza di chi aveva scritto il libro. Nel 1991 il traduttore italiano Ettore Capriolo venne pugnalato nella sua abitazione milanese, ma riuscì a sopravvivere. Meno fortuna ebbe il traduttore giapponese Hitoshi Igarashi, accoltellato a morte. Nel 1993 l’editore norvegese William Nygaard fu ferito da un’arma da fuoco, mentre il traduttore turco Aziz Nesin riuscì a scampare a un terribile incendio che provocò la morte di 37 persone. Ma chi era il suo autore, condannato per sempre a una vita sotto scorta?
Salman Rushdie è nato a Bombay il 19 giugno 1947 da una famiglia benestante e di fede musulmana. Dopo aver frequentato le migliori scuole indiane, proseguì gli studi universitari a Cambridge, in Inghilterra. Dopo aver lavorato come copywriter per diverse agenzie pubblicitarie inglesi, nel 1975 pubblicò il suo primo romanzo e decise di dedicarsi definitivamente alla sua vita da scrittore. Pubblicato in Gran Bretagna nel settembre del 1988, I versi satanici fu il suo quarto libro e, ironicamente, lo fece conoscere in tutto il mondo e contemporaneamente lo condannò definitivamente.
Come racconta un recente articolo del Foglio, due settimane dopo l’uscita del romanzo arrivarono le prime minacce di morte. Prima della fine dell’anno, diverse copie del suo libro (già bandito in diversi paesi, tra cui la sua India) vennero bruciate in piazza e un pacco bomba spedito alla casa editrice. “Nessuno da ora tenterà di insultare Maometto”, disse Khomeini in quel San Valentino del 1989: ciò costrinse Scotland Yard a proteggere tutti i dirigenti della Penguin, che aveva pubblicato originariamente il libro, ma molto probabilmente ebbe anche delle conseguenze sulla storia.
Basti pensare all’assassinio del regista Theo van Gogh nel 2004, per via del suo film Submission e della sua posizione critica verso l’Islam, oppure all’attentato alla redazione parigina di Charlie Hebdo, la rivista satirica su cui erano apparse alcune vignette su Maometto. Trent’anni dopo la condanna a morte verso lo scrittore, molto probabilmente oggi nessun’altra casa editrice pubblicherebbe un libro come I versi satanici, pur trattandosi di un’opera di finzione.
Forse, però, è cambiato qualcosa per Salman Rushdie, come ha raccontato tempo fa in un’intervista al Corriere. Vive una vita quasi normale, ha continuato a scrivere e a essere pubblicato, anche se trova ingiusto dover “parlare di queste cose come un politico e non come uno scrittore. Come un oratore e non come un artista. È molto, molto frustrante”. Ma è mutato soprattutto l’approccio al suo romanzo da parte del pubblico.
Ora che è passato così tanto tempo, sono contento di una cosa: che oggi tutti, soprattutto i giovani, possono leggere il mio libro senza ritenerlo un oggetto scandaloso. Finalmente questo libro può vivere il normale corso di un romanzo: ad alcuni piace, ad altri non molto.
Web content writer e traduttrice. Parlo poco, scrivo tanto e cito spesso Yeats.
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