Le Eroine di Marina Pierri: "Dobbiamo restituire le storie a chi appartengono"

"Noi facciamo un torto all'eroina quando creiamo una donna come se fosse un eroe nel corpo di una donna con la quale vorremmo anche andare a letto". Intervista a Marina Pierri, in libreria con "Eroine - Come i personaggi delle serie tv possono aiutarci a fiorire"

Cosa accade quando guardiamo una serie tv? Cosa ci spinge a seguire uno o più personaggi e il mondo in cui si muovono per ore e ore, a volte persino per intere stagioni? Stiamo “solo” guardando o dentro di noi sta avvenendo qualcosa?

La domanda vale, in special modo, per noi donne che, dopo essere cresciute con fiabe e narrazioni sempre declinate da uno sguardo maschile che ci istruiva su come diventare o essere vere donne (anche quando sembrava omaggiarci o dipingerci ribelli e volitive), ci troviamo finalmente davanti a un olimpo di eroine sempre più vasto e variegato.

Quanto siamo “solo” spettatrici e quanto partecipanti e, soprattutto, quanto è facile appassionarci a protagoniste in cui ci identifichiamo, ma quanto possono darci anche quelle che non parlano direttamente al nostro modo di sentirci e viverci in quanto donne?

Eroine – Come i personaggi delle serie tv possono aiutarci a fiorire di Marina Pierri (Edizioni Tlon) è un libro che prova a rispondere a tutte queste domande, in un viaggio alla scoperta di ventidue figure femminili che sono altrettanti archetipi del Viaggio dell’Eroina. L’assunto, va da sé, è che le storie, non sono mai “solo” storie, puro intrattenimento ma, esattamente come ogni linguaggio artistico o quotidiano che si sceglie di adottare per rappresentare il mondo, mattoni culturali.

Pierri, scrittrice e critica televisiva, tra le altre cose co-fondatrice e direttrice artistica di FeST – Il Festival delle Serie Tv di Milano,  lo sa bene e infatti in questo saggio fa molto di più e di questo ne abbiamo parlato direttamente con lei nell’intervista che segue.

Prima però disclaimer: le domande sopra valgono, per la verità, anche per gli uomini. Perché questo gotha di nuov* protagonist* ci mostra, riconoscendole, infinite possibilità di essere femmine, ma ne legittima altrettante maschili, che non devono per forza confermarsi all’unico canone maschile stereotipato.

Marina Pierri, anche se hai usato un linguaggio divulgativo il tuo è un vero e proprio saggio, che del saggio ha la complessità e lo sguardo analitico, ma non solo: in Eroine tu porti avanti una tesi precisa.
Ti chiedo in primis se sei d’accordo con questa mia affermazione e, se sì, di illustrarci questa tesi.

Onestamente è una domanda che non mi ha fatto ancora nessuno in questi termini e a cui sono molto contenta di rispondere. La tesi di Eroine è che abbiamo bisogno di restituire le storie alle persone che sono raccontate in quelle storie.
La tesi è cioè la necessità di sfondare il sistema tradizionale della narrazione e, grazie anche agli effetti più positivi della rivoluzione digitale, aprire questi spazi a voci tradizionalmente marginalizzate.

Fino a oggi lo sguardo che ci è stato fatto passare per neutro, neutro non lo era: era quello dell’uomo, maschio, bianco, abile, eterosessuale, che però non è lo sguardo di tutte e di tutti ma appartiene solo a una parte della società.
Io non voglio continuare a indossare un abito che non è il mio: voglio che vi sia una varietà di storie e, dunque, voglio che vi sia una varietà di abiti che possono conformarsi al mio corpo, che può non essere un corpo abile, un corpo magro, un corpo sano, un corpo bianco, un corpo non binario o mille altri corpi diversi.

Nella fattispecie di Eroine, sono donne molto diverse fra loro, che hanno per così dire un’identità intersezionale: solo dando la possibilità a queste donne di raccontare esperienze molto diverse sullo spettro della femminilità possiamo ampliare la nostra concezione della femminilità stessa. Perché non esiste un solo parametro femminile al mondo.

Qualcuno sbufferà, dicendo che siamo le solite femministe che hanno una visione falsata delle cose. Per questo, come dice Michela Murgia, è importante contare e le percentuali ci dicono che la tua tesi si basa su numeri ancora molto sbilanciati.

Storicamente le percentuali di accesso a Hollywood e all’industria cinematografica hanno penalizzato enormemente le donne e privilegiato lo sguardo patriarcale o, comunque, del maschio. Sguardo che magari, anche quando in buon fede, sostituisce in ottica sistemica qualsiasi altro sguardo, mostrandoci sempre il punto di vista dell’uomo più o meno illuminato e portatore del privilegio apicale.
I dati stanno migliorando, ma se andiamo a guardare l’Hollywood Diversity Report dell’UCLA scopriamo che su 11 major il 90% delle persone in posizione decisionale sono uomini e bianchi.

Eroine parla di donne, ma tu stessa hai introdotto il tema del femminismo intersezionale poco fa.
Questa necessità di raccontare storie dai reali punti di vista dei protagonisti o delle protagoniste, va da sé, non riguarda anche gli uomini che non si conformano al male gaze, cioè a quello “sguardo maschile privilegiato” che dicevi prima, né alla rappresentazione che del maschio questo tipo di narrazione dà. 

Diciamo che, quando si parla del viaggio dell’eroe in ottica tradizionale, una domanda che è lecito farsi è ‘Quanto è sacrificata l’emotività maschile?’.
Sai, nel libro sono sempre stata attenta a usare la doppia declinazione proprio perché penso che, come io mi sono rivista per tanti anni in personaggi maschili, anche dal punto di vista di un uomo che legge Eroine o guarda le serie tv con protagonista femminile possa esserci un’apertura, che va dal semplicemente ascolto interessato, all’ammirazione, fino addirittura all’immedesimazione.

C’è quest’idea diffusa, che ci viene insegnata a partire dalla scuola e dai suoi programmi, che l’arte creata dalle donne (intesa come letteratura, pittura, ma anche cinema o serie tv) sia destinata alle donne. L’attenzione di cui parli nel declinare pronomi e aggettivi sembra dire anche: “Ehy, questo libro parla di eroine, è scritto da una donna, ma non è solo per le donne, esattamente come queste serie non si rivolgono solo alle persone che si riconoscono nel genere femminile”.

Assolutamente! Tra l’altro ho un aneddoto divertente a proposito: quando c’era Piccole Donne al cinema, una persona mi ha detto ‘Vorrei andare con il mio fidanzato al cinema, consigli?’. Quando le ho risposto ‘Piccole Donne’, mi ha detto testualmente: ‘Magari qualcosa con un titolo un po’ meno respingente?’. Il punto è proprio questo: viviamo in un mondo dove Piccole donne è considerata un classico da femmine.
Questo è singolarmente interessante, io ho anche un podcast su Sex & The City con Eugenia Fattori (Tutte col Tutù, ndr): se ci pensi, Carrie Bradshaw è considerata la prima antieroina della storia della serialità televisiva e, cosa interessantissima, ai tempi Sex & The City fu stroncato dai critici, declassato e considerato una seriuccia per donnine, mentre imperavano sui piccoli schermi i big drama come I Soprano, Breaking Bad e tutti gli altri epigoni degli antieroi.

Confesso di aver peccato ai tempi dello stesso sguardo snob e me ne vantavo pure, oggi mi rendo conto che, per quanto Sex & The City sia tutt’altro che una serie femminista, il mio era puro male gaze interiorizzato e che quella serie ha segnato un primo cambiamento.

Ma sai, noi continuiamo a pensare agli antieroi maschi come “a misura di tutte le persone”.
Crediamo che la storia di un uomo bianco ed etero sia accessibile e universale a tutti, ma perché?
Perché il Viaggio dell’Eroe, su cui si basa la stragrande maggioranza della narrativa, è maschile ed è costruito a uso e consumo dell’esperienza maschile. Questo ha legittimato il fatto che un’opera o un personaggio maschile siano considerati universali, mentre una protagonista cade nell’equivoco di essere state costruita per l’esperienza femminile, ma questo accade perché le donne sono trattate come se fossero una minoranza.

Cosa peraltro non vera, visto che siano la metà della popolazione mondiale e, in alcuni momenti storici, siamo persino state la maggioranza. Del resto è un paradosso che si riflette altrove: la popolazione bianca non è, a sua volta, la maggioranza ma si comporta come tale.

Ma soffermiamoci un attimo sul Viaggio dell’Eroe, che per completezza di informazione, è il nome del libro in cui lo sceneggiatore Christopher Vogler ha teorizzato l’arco di trasformazione del personaggio e uno “schema” narrativo, influenzato da Jung, dagli studi dell’antropologo russo Vladimir Propp e da Joseph Campbell.
Ma, se chiunque insegni storytelling o scriva storie conosce il Viaggio delle Eroe e questi nomi, in pochi hanno un’idea del Viaggio dell’Eroina, teorizzato da Maureen Murdock, educatrice e psicoterapista junghiana.

Una cosa che mi ha sempre molto lasciata perplessa, in realtà, è assistere alla nascita o all’adattamento di storie che vorrebbero avere valenza femminista in cui però l’eroina è stata riprodotta a immagine e somiglianza dell’uomo o del suo desiderio. 
Penso a eroine sessualizzate dal male gaze, che presentano caratteristiche maschili di forza, potere, etc: come a dirci che un’eroina debba mascolinizzarsi ed essere la versione surrogata femminile del vero eroe.

C’è un libro che conosci molto bene, immagino, che è “Liberati della brava bambina” di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, in cui questa mascolinizzazione dell’eroina diventa semmai l’errore fatale che l’eroina stessa deve combattere: l’ostacolo del patriarcato dal quale emanciparsi per fiorire. Penso a Daenerys Targaryen di Game of Thrones o Malefica.
Da loro salto, seguendo lo stesso filo logico, a una delle figure femminili più belle che hai analizzato: Angela Abar di Watchman, che distrugge lo stereotipo, ancora in buonissima salute purtroppo, della strong black woman, la donna nera forte.
Qual è, ti chiedo, il rischio maggiore nel Viaggio dell’Eroina?

Ti voglio porre subito questa domanda: quando mai sentiamo parlare di personaggi maschili forti?
Proviamo a immaginarci un teaser di Gomorra dove si dica ‘Finalmente un personaggio maschile forte’.
Questo non esiste, è pleonastico, perché la forza è una delle caratteristiche tradizionalmente ascritte alla mascolinità, mentre la caratteristica tipicamente ascritta alla femminilità è ad esempio la bellezza, la cura, l’amore visto sempre in un’ottica paternale e di dipendenza dall’uomo, che suggerisce l’idea di una donna incompleta.

Nelle storie si parla spesso di “eroina incompleta”, non sentiamo mai parlare di “eroi incompleti”: questo retaggio viene da secoli di psicologia che vedeva la donna come un “maschio senza il pene”, questo è l’imprinting se sei abituato a pensare alla donna – e la cultura patriarcale lo è – come a un essere cui manchi qualcosa per nascita.
Ma le eroine non sono mai incomplete, le eroine semmai possono avere, e ce l’hanno perché lo abbiamo anche noi, il grosso problema di liberarsi dal patriarcato interiorizzato. La battaglia è duplice, perché da un lato bisogna fendere il patriarcato esteriore, che pone delle barriere oggettive a quello che è il viaggio femminile verso la fioritura, dall’altra parte bisogna fendere il patriarcato interiore e tutta la serie di lavaggi del cervello che ci sono rimasti.

Le principesse Disney di ultima generazione come Elsa, Merida, Oceania, per esempio, sono donne a cui viene detto devi stare a casa, ti devi sposare, il tuo destino è la tua tribù. Ciò che le rende eroine è il fatto che invece scelgono di accedere all’archetipo 5, l’archetipo della cercatrice, e quindi dire ‘io adesso sfido i condizionamenti patriarcali e mi avventuro lì dove non ho mappa, perché il mio tracciato è nuovo ed è unico’. Noi facciamo un torto all’eroina quando creiamo una donna come se fosse un eroe nel corpo di una donna con la quale vorremmo anche andare a letto.

Cosa accade a una spettatrice o uno spettatore che guardano una serie tv e cosa intendi, nel tuo libro, per spettatori cattivi e buoni?

Io penso che la spettatorialità possa esser un ottimo laboratorio per fiorire come esseri umani e porre le basi per una società più paritaria. L’immedesimazione, che è la modalità con cui tipicamente ci avviciniamo alle serie tv e alle storie, rimane una modalità principessa, una modalità fondamentale di spettatorialità partecipante, perché io ricerco nei personaggi caratteristiche che sono anche mie. D’altro canto l’immedesimazione può essere anche una trappola. 
Gli uomini abituati alle loro monostorie, per esempio, rifiutano quell’esperienza in toto perché rispondono ‘non riesco a identificarmi’ in una donna o in una donna nera, o addirittura ‘non riesco a identificarmi in un uomo con disabilità con un corpo non conforme’.

Io invece suggerisco di non cercare l’immedesimazione a tutti i costi, ma di metterci in ascolto rispettoso e curioso verso le storie che raccontano vissuti altri dal nostro, perché quella è la nostra occasione per comprendere ciò che diversamente nel mio quotidiano potrei non incontrare mai. Il senso è questo qui: smettere di pretendere dalla serie tv che le persone sullo schermo debbano essere identiche a noi, avere le nostre stesse caratteristiche, e non essere persone che vivono in altri Paesi, che hanno fatto esperienze diverse, che hanno orientamenti sessuali diversi, corpi non conformi. Possiamo avvicinarci a quello che guardiamo con l’intento di conoscere. Non tutte le eroine del mio libro sono eroine che io amo alla follia, ci sono eroine nei confronti delle quali non ho provato alcuna immedesimazione, nondimeno ho compreso che il loro ruolo poteva essere fondamentale, da un lato, per altre persone; dall’altro sono state importanti per me, perché sono riuscita a capire e ad ascoltare delle cose che con molta fatica avrei ascoltato nella mia quotidianità.

La distinzione tra eroina guida e eroina ombra che fai nel libro cosa significa? È questione di merito?

Questa distinzione è una matrice semiotica filosofica e racconta del doppio lato dell’archetipo; quando si parla di luce d ombra degli archetipi viene in mente Star Wars, il lato oscuro della forza, ma è esattamente quello. Per me, per gli studiosi di Jung, l’ombra rappresenta una parte della società e della persona che non si vuole guardare. Tutto ciò che è stato controllato tramite l’invisibilità. Questo implica che l’ombra sia un costrutto eminentemente sociale e rappresenti, dal punto di vista individuale e collettivo, delle istanze che possono essere percepite come minacciose, e che per le donne sono tanto più gravi. Esempio: parlando di Sana, io l’ho inserita come archetipo ombra perché fa capo a una religione che non è diffusa in Italia quanto il cattolicesimo e questo significa che si tende molto a svalutare il vissuto delle donne musulmane. Nel caso di Sana l’ombra funziona a livello sociale, dove il messaggio è ‘tu sei altro, non sei della mia religione, porti il velo, non bevi, non vuoi fare l’amore prima del matrimonio o preghi, cosa che nessuno dei tuoi coetanei fa, percepisco la tua differenza rispetto a me e posso esser spaventato/a da questa differenza’: ma proprio questo è il senso dell’ombra. L’ombra è importante perché è qualcosa di non finito, mentre l’archetipo luminoso è lì, mentre spesso nell’analisi dell’ombra hai le ragioni per cui hai fatto fatica ad affermare la tua individualità o a immergere nel tuo essere una persona unica e non somigliante a nessun altro. L’ombra è utile perché consente di decriptare le ragioni per cui all’eroina vengono posti davanti tanti ostacoli.

L’idea che la serie tv sia un prodotto di serie B rispetto al cinema è diffusa e culturalmente falsissima, perché abbiamo visto quanto possa operare all’interno della società e della rappresentazione della realtà. Mettiamo che con questo una persona che ha sempre avuto questo pregiudizio rispetto alle serie tv si sia ricreduta o sia disposta a capirne di più, nel panorama vastissimo, da quale titolo potrebbe iniziare per cogliere questo sguardo intersezionale?

Premessa: la serialità tv è impegnativa. Ha una grossa differenza rispetto al cinema, che dura un’ora o due. Una stagione dura in media 8, 10, ore e spesso sono più di una. Non è impegnativo in senso brutto, è impegnativo in senso bello perché predispone al privilegio di potersi dedicare all’intrattenimento per molto tempo.

Per cominciare una serie utile può essere Fleabag, anche per una questione di brevità. Lei è un’eroina atipica e una donna molto atipica, infatti molti dicono che Fleabag è mutuata dagli stereotipi maschili dell’eroe, che è potenzialmente vero, ha delle caratteristiche che tipicamente ascriviamo ai personaggi maschili, esempio l’estrema noncuranza, l’egoismo, il narcisismo. Nondimeno dal punto di vista temporale è una serie poco impegnativa, conta di 2 stagioni da 6 episodi di 30 minuti l’uno e credo sia suscettibile di aprire quella porta più vasta alla serialità. Per continuare, una volta che si sia fatta esperienza di serie tv e si voglia scoprire un prodotto poco noto ma straordinario suggerisco di guardare Vida di Tanya Saracho: è una serie queer con uno sguardo femminile sull’eros, sul sesso ma anche sulla maternità che io personalmente non ho visto da nessun’altra parte, è una serie unica. Non la conosce quasi nessuno anche perché è arrivata da non tantissimo in Italia e poi è su Star Play, una piattaforma streaming cui si accede tramite Apple Tv + e costa 4,99 euro al mese, però è un serbatoio di storie eccellenti.
Ci sono anche serie tv gratuite: una docuserie stupenda da guardare accessibile a tutt*, per esempio, è Indomite, piena di viaggi delle eroine.

Eroine. Come i personaggi delle serie TV possono aiutarci a fiorire

Eroine. Come i personaggi delle serie TV possono aiutarci a fiorire

In questo libro Marina Pierri ripercorre le storie di alcune eroine delle serie tv che sono di grande ispirazione per le donne reali.
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