La società occidentale è profondamente grassofobica, e questo, ahinoi, è un dato di fatto: bombardati da immagini di corpi perfetti – e irreali -, da pubblicità che invitano a “superare la prova costume”, da diete, e dall’idea che tutto ciò che si discosti da ciò che è giudicato “conforme” sia sbagliato, abbiamo finito con il diventare terrorizzati/e dal grasso, al punto da demonizzare persino l’uso dell’aggettivo stesso, “grasso“, che, invece, esprime unicamente una caratteristica fisica al pari dell’essere alti, bassi, magri, biondi o bruni.

Ma la nostra grassofobia è “solo” una questione estetica? Secondo Sabrina Strings, professoressa di sociologia e autrice del saggio Fat phobia, edito in Italia da Mar dei Sargassi, la questione in realtà è molto più ampia, almeno nel caso delle donne nere grasse, e affonda le proprie radici negli anni del colonialismo, della schiavitù e nel suprematismo bianco, che ha fatto del grasso un’occasione in più per marginalizzare e discriminare le persone nere.

Fat phobia

Fat phobia

L'autrice e professoressa di sociologia Sabrina Strings analizza la grassofobia del mondo occidentale da un'altra prospettiva: non come espressione di una paura del grasso legata all'estetica, ma come emblema di un razzismo sistemico e opprimente che riguarda soprattutto le donne grasse nere.
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Con l’autrice del saggio abbiamo parlato proprio di questi aspetti, che sono senz’altro inediti e affrontano la grassofobia da tutt’altra prospettiva, come una questione sì sociale, ma di tipo diverso: non una contrapposizione tra magri=conformi e grassi=non conformi, quanto piuttosto come una gerarchia, magri, persone bianche grasse, persone nere grasse.

“Spesso si crede che la fobia per i grassi sia radicata nelle preoccupazioni per la salute – ci spiega Strings – L’idea è questa: ‘la grassezza è malsana, e quindi miglioriamo la salute delle persone grasse facendole vergognare e portandole a dimagrire’. Questo è il pensiero. In realtà, la grassofobia in Occidente è nata come un’affezione anti-nera e protestante.
Il protestantesimo (e in particolare il puritanesimo) portava con sé un forte senso di autodisciplina e molti protestanti del XVII-XVIII secolo pensavano che ‘mangiare troppo’ fosse immorale. Allo stesso modo, hanno iniziato a pensare che mangiare ‘troppo’ evidenziasse una mancanza di autocontrollo, che invece era più tipico della ‘razze inferioriì, degli africani in particolare.

Dopo che queste idee erano già state accettate come verità morali e ‘scientifiche’, i medici – cavalcando lo Zeitgeist culturale – decisero che l’ingrassamento era anche prova di malattia, utilizzando prove molto inconsistenti“.

Fonte: Ufficio stampa Mar dei Sargassi edizioni

Lei analizza una doppia prospettiva della fat phobia: una più generica, che è quella che riguarda il corpo femminile in generale, e quella secondo cui questa diventa un’ulteriore discriminante di tipo razziale. Andando a ritroso nel tempo, come fa nel suo libro, troviamo esempi di una complessiva discriminazione basata sulle caratteristiche fisiche compiuta dai bianchi verso i neri, che si esplica, ad esempio, nell’esistenza degli zoo umani, o in figure come quella di Sarah Baartman. Sono passati due secoli, eppure perché è ancora così difficile cambiare la prospettiva delle persone?

Solo ora stiamo iniziando a capire da dove arriva, in termini di origini razziali, la grassofobia. E solo per questo motivo è difficile, per molte persone, accettarlo. Immaginate di sentirvi dire per tutta la vita che lo zucchero fa bene alla salute. Poi un giorno arriva qualcuno e dice che non è vero. Quanto facilmente accetterete questa nuova realtà, soprattutto se vi piace lo zucchero? Questa è una delle difficoltà della trasformazione.
Sappiamo che la grassofobia è un male; ma allo stesso tempo molte persone si sono divertite a ridicolizzare le persone grasse, sentendosi giustificate nel farlo, perché in questo modo pensavano di ‘aiutare’ le persone grasse a stare bene. La commedia popolare ci offre molti esempi del genere“.

Secondo lei il femminismo intersezionale si occupa davvero bene e fino in fondo della grassofobia nei confronti delle donne nere?

“Credo nel potere trasformativo del femminismo, soprattutto di quello che dà la priorità alle minoranze. Ma dobbiamo essere tutte pronte a lavorare per porre fine alla grassofobia e ad altre forme di razzismo/sessismo. Qualunque sia il nostro nome (e l’intersezionalità è un quadro utile) dobbiamo essere disposte ascoltare chi è più emarginato, e a muoverci per porre fine alle loro sofferenze e alle nostre.
Rifiuto l’idea che cambiare il nostro modo di pensare di per sé, possa cancellare secoli di danni. Noi dobbiamo essere disposte a mostrarci per liberarci dall’oppressione“.

Nel suo articolo per il New York Times scrive che la discriminazione ancora oggi esistente porta, in un certo qual modo, la salute delle persone nere a essere marginalizzata, e cita dei dati davvero gravi: il tasso di vittime dei neri è 2,4 volte quello dei bianchi con Covid-19, mentre ci sono stati in cui muoiono da cinque a settte persone nere per ogni persona bianca. In che modo il bias culturale si riflette anche su un settore importante come quello medico, e perché? 

“In America, la nazione più ricca del mondo che non ha una copertura sanitaria universale, gli individui con meno soldi ricevono in genere l’assistenza sanitaria peggiore. I neri, a causa della schiavitù, di Jim Crow, dell’incarcerazione di massa (e così via), hanno trascorso centinaia di anni dietro le sbarre, senza ricevere un salario sufficiente, spesso anche nessun salario, per nutrirsi e prendersi cura di se stessi. È questo retaggio a danneggiare la condizione sanitaria dei neri in America. E, onestamente, un simile comportamento è stato attuato in altre parti del mondo verso le persone BIPOC (Black, Indigenous and People of Color) o BAME ( Black, Asian, and minority ethnic)“.

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