Una storia 'da maschi' e di donne scordate: Alessandra Selmi e il villaggio operaio di Crespi d'Adda

“Al di qua del fiume” di Alessandra Selmi è tante storie insieme. C'è la storia (vera!) del primo villaggio operaio in Italia; c'è la Storia con la S maiuscola; e c'è quella, altrettanto reale pur con qualche concessione, della famiglia Crespi. Ci sono poi voci e vicende fittizie, a creare un romanzo corale unico nel suo genere. A ben vedere però, quest'ultime sono meno immaginarie di quanto si pensi; e Selmi utilizza la finzione letteraria per raccontare una verità storica omessa dai libri, che merita di essere detta.

Comprendere il ruolo delle donne dai libri di scuola è difficile. Qua e là si trova qualche trafiletto, quando va bene: le donne sono passate nei secoli senza lasciare troppe tracce, chiamate a essere le mogli e le madri, le amanti e le schiave, le figlie (e via, daccapo!) di uomini indaffarati a compiere imprese. La storia del villaggio operaio di Crespi D’Adda non fa differenza.

Per raccontarla, tocca partire da fatti e documenti che portano, sempre, una firma maschile. Lo sa bene Alessandra Selmi, che con Al di qua del fiume (Casa Editrice Nord) firma un romanzo storico di rara bellezza sulle orme dei Crespi di Busto Arsizio, da generazioni tengitt (tintori), finché uno di loro acquista un «triangolo di terra». Nel libro come nella realtà italiana di fine Ottocento, Cristoforo Crespi è l’uomo nuovo della famiglia bustocca: è lui a chiamare a raccolta i capi famiglia che vivono nella zona «dove il Brembo si butta nell’Adda», offrire loro un lavoro, e fondare nel 1877 un cotonificio e un intero sistema-paese in funzione di esso.

Oggi Crespi D’Adda, frazione di Capriate San Gervasio in provincia di Bergamo, è il villaggio operaio meglio conservato d’Europa, dal 1995 patrimonio UNESCO. Ma la sua storia – e con essa il racconto di Selmi – inizia prima di esistere, con il sogno tutto da costruire di un uomo che le fotografie del tempo mostrano austero, con i baffi alla maniera risorgimentale.

L’utopia di Cristoforo Crespi non contempla solo un cotonificio con aspirazioni internazionali, ma tira in piedi negli anni un micro mondo autosufficiente simile a un alveare umano, completo di emporio, scuola, chiesa, dottore, cimitero e scandito da momenti di intrattenimento collettivo:

In questo modo gli uomini non dovranno venire da lontano, sprecando energie e tempo prezioso nel tragitto; vivranno qui e la fabbrica sarà la loro seconda casa.

Crespi immagina un sistema di welfare ante litteram per i lavoratori e le loro famiglie e intuisce il valore, ancora lontano a venire, racchiuso nel concetto di risorse umane. Porre i suoi lavoratori e le sue lavoratrici nelle migliori condizioni possibili (per l’epoca!) significa sfruttare al massimo il loro potenziale produttivo, in un’emulsione di paternalismo e potenziamento del profitto. A definire Cristoforo Crespi un visionario, e non un folle, furono solo i fatti.

@Archivio storico di Crespi d’Adda. Ing. Giovanni Rinaldi – Comune di Capriate San Gervasio

La parabola di questo luogo unico, del resto, si intreccia senza soluzione di continuità con un’altra storia, anch’essa scritta da uomini illustri: quella d’Italia, che quando il cotonificio apre è un Regno da poco più di tre lustri. L’epopea dei Crespi e quella nazionale sono due facce della stessa medaglia: un gioco di specchi che Alessandra Selmi dipana in Al di qua del fiume seguendo la linea cronologica del tempo, dal 1877 fino al 1930, quando il passaggio generazionale al figlio Silvio Crespi, l’adesione di questi al fascismo e la Seconda guerra mondiale alle porte segnano il declino dell’utopia dei tengitt diventati cotonieri di livello internazionale.

Selmi non si limita a unire i generi del romanzo storico e della saga familiare – etichette riduttive anche per gli amanti delle classificazioni – ma, con la perizia storiografica già esercitata in Le origini del potere, cuce le vicende nazionali e locali con una terza trama, fittizia e avvincente, che dà vita a personaggi così frangibili e umani da far sentire la loro mancanza  appena si termina la lettura.

Sono le donne – e in particolare, l’Emilia – a dar vita a un coro di vicende umane meno immaginario di quanto si possa pensare; ché a ben vedere Selmi utilizza la finzione letteraria per raccontare una verità storica, omessa dai libri, che merita di essere detta e l’autrice stessa ci illustra:

«La storia, per come la conosciamo, è fatta da uomini potenti – re, papi, imperatori – che hanno deciso le sorti del mondo. Le figure femminili sono poche, e spesso quelle di cui abbiamo memoria sono diventate famose in relazione a un marito, a un amante, comunque a un maschio.
La convinzione errata è che le donne abbiano avuto un ruolo secondario, o solo domestico: ogni storico sa bene che non è così. A partire dalla rivoluzione industriale soprattutto, esse furono impiegate nelle fabbriche tanto quanto gli uomini ma, a differenza di questi, erano pagate meno. Così com’era ampiamente utilizzata la manodopera infantile, anch’essa sottopagata e sfruttata.»

Gli archivi dell’associazione culturale Crespi d’Adda, offrono una fotografia precisa di questa realtà: nel 1889 – anno in cui il paese prese il nome del suo fondatore con il passaggio dal comune di Canonica a Capriate – la forza lavoro del villaggio era costituita da 210 uomini, ben 250 donne, e 140 ragazzi (80 femmine e 60 maschi) con meno di 15 anni. Contestualizzare, come fa notare Selmi, è importante:

«Per quanto Cristoforo Crespi possa essere stato un imprenditore illuminato, stiamo parlando di un cotonificio che aprì negli ultimi decenni dell’Ottocento. Le donne non avevano, per legge, il diritto di possedere alcuna proprietà ed esisteva ancora l’autorizzazione maritale. Ciò significa che qualsiasi eredità femminile passava automaticamente dalle mani del padre al marito, e serviva semmai a sancire alleanze e ampliare patrimoni, di nuovo, maschili. Quando nel libro Crespi convoca il consiglio di amministrazione dell’azienda di famiglie, per esempio, le sorelle sono rappresentate dai mariti. Non l’ho scritto perché mi andava, ma perché è così che funzionava.»

@Archivio storico di Crespi d’Adda. Ing. Giovanni Rinaldi – Comune di Capriate San Gervasio

Le Guerre mondiali in particolare hanno visto le donne – e i bambini – sostituirsi in toto agli uomini impegnati sui fronti, raddoppiando orari di lavoro già massacranti e inumani: «Il loro ruolo, soprattutto durante le due Guerre, è stato strategico ma poco riconosciuto: a Crespi d’Adda, dove la manodopera femminile e minorile ha salvato il cotonificio dal crac finanziario, come a livello nazionale e mondiale.»

Dai Moti di Milano del 1898 repressi a cannonate dal generale Bava Beccaris al primo conflitto mondiale, dalle morti (anche infantili) determinate dalle patologie respiratorie professionali dei cotonieri o conseguenti ai numerosi incidenti sul lavoro: in Al di qua del fiume, Selmi non spiega la Storia ma la mostra, su scala nazionale e locale, attraverso le vicissitudini dei personaggi, reali e/o inventati. Soprattutto, non la giudica:

«Giudicare la Storia con le lenti di oggi è deontologicamente sbagliato.
In un romanzo, se storico a maggior ragione, non si può raccontare il passato per trarne una morale senza barare: io so com’è andata a finire. Le persone e le loro storie non sono mai in bianco e nero, ma una somma di incidenti, errori, scelte, casualità e contraddizioni. Col senno di poi, persone o eventi possono sembrare incomprensibili o addirittura colpevoli, ma nel presente i confini tra giusto e sbagliato sono tutt’altro che netti.»

E infatti nel libro convivono gli opposti e le scale di grigio, in una realtà complessa e intersecata: l’inconciliabilità tra le aspirazioni mutualistiche e le logiche di profitto di Cristoforo Crespi, non rende le prime più autentiche delle seconde; né l’adesione alla politica muscolare del fascismo da parte di Silvio Crespi, cancella l’umanità e le fragilità del figlio ed erede di Cristoforo, altro personaggio storico che nel libro s’impara a conoscere sin da bambino. La stessa venerazione dei paesani per il padrone-benefattore, convive e si plasma con la crescente coscienza di classe e le istanze di giustizia sociale. Sebbene torti e ragioni nella Storia non siano mai equamente distribuiti, manca nella prosa di Selmi la linea netta tra i buoni e i cattivi assente quasi sempre anche nella realtà.

È questo essere umani, terribilmente umani, a rendere veri anche i personaggi inventati:

«Quasi tutti: a parte i membri della famiglia Crespi.
Il parroco don Ranghetti è esistito, ma a parte l’anno di morte, le vicende di cui scrivo sono di fantasia. Lo stesso dicasi per il dottor Garzaroli, solo menzionato.»

E le donne?
«Come sopra: a parte quelle della famiglia Crespi, inventate. A dire il vero, anche di queste si sa poco perché, mentre di uomini come Silvio Crespi restano documenti firmati, brevetti depositati e partecipazioni note a eventi mondani o politici, di sua moglie Teresa Ghislieri, per esempio, sappiamo che ebbe sette figli e che, come altre donne delle famiglia Crespi, era molto attiva nelle opere di carità presso le famiglie più indigenti di Crespi d’Adda.»

Eppure, è nell’assenza documentaristica che la finzione letteraria di Selmi serve al meglio la verità storica. Il mondo di Crespi d’Adda è pieno di donne, protette dal potere dell’invisibilità garantito dall’essere figlie, mogli e madri di, a patto di non fare troppo chiasso, come si conviene alle femmine. Selmi dissemina il romanzo di comparse femminili, ma sottrae alcune al diktat dell’anonimato dal quale Virginia Woolf metteva in guardia le studenti universitarie nel 1928 quando diceva «”La massima gloria di una donna è far sì che non si parli lei”, disse Pericle, un uomo di cui si è parlato abbastanza.»

Amalia la pazza, che porta male e ha le visioni, Elvira la puttana, l’Emilia che zitta zitta (ma non troppo!) compie la sua rivoluzione gentile: sono personagge di fantasia che ogni paese reale conosce bene. Ragazze madri, senza figli, zitelle, scostumate, teste calde: sono le ombre cancellate nella Storia, ma chiacchierate o additate in vita senza tregua e possibilità di vivere secondo desiderio o indole.

Sono queste donne a dar vita a personagge imbevute di vita vera che, conferma l’autrice, «personificano ognuna un tema imprescindibile della questione femminile. Sono fatte di lavoro e povertà, costrette a subire la loro condizione di donne e a tentare di salvarsi, o almeno di passare la vita, come possono.
L’Emilia in particolare, che seguiamo nel sua arco di trasformazione da bambina a donna, incarna una rivoluzione garbata ma ferma. Non accetta di essere solo “la moglie o la figlia di”: vuole scegliere cosa fare della propria vita. Ancora oggi per molte donne è un gesto rivoluzionario.»

Vien da pensare non sia un caso che Emilia, figlia di Amalia la matta, sia la voce narrante: colei che prende parola e dà la propria versione della storia – meno lineare e machista di quella ufficiale – non può che avere nelle vene sangue da strega. Emilia del resto passa la vita facendo crepe più o meno volontarie nel sistema patriarcale e paternalistico che la circonda: è amica senza giudizio dell’Elvira e, per quanto non possa sottrarsi alla tradizionale “sfilata delle spose” davanti al padrone, non la desidera e, quando arriva il momento, genera un cortocircuito gentile che, sebbene affidato a uno scambio di battute tra maschi, parte da lei.

Per quanto Al di qua del fiume sia spesso accostato al grande successo di Stefania Auci, I leoni di Sicilia, le genealogie di Selmi ricordano più la poetica di un altro siciliano nel concepire la consanguineità come un’eredità senza possibilità di appello che condanna i crespesi come i personaggi verghiani. La maledizione dei Malberti impastati di carne, fatica e miseria, per esempio, la Luigia la eredita con il cognome e le botte dell’Oreste, e la trasmette ai figli. A partire dall’Elvira, che in quel suo farsi puttana, si augura forse un modo meno orrendo e più libero di quello della madre per tirare a campare, se sei donna.

Accade anche agli uomini, a dire il vero, che pagano l’impossibilità di sottrarsi ai requisiti e ai doveri del proprio genere, a prescindere dalla classe sociale. Succede a un altro figlio della Luigia, Fredo, che come la madre è vittima e carnefice, ma a differenza di questa ancora conserva un pezzo intonso in un’anima nera. Succede, o almeno è lecito presumere possa succedere, anche a un personaggio storico come Silvio Crespi; ché essere ricchi e potenti, oltre che maschi, può essere privilegio e gabbia al tempo stesso se si diventa biglie destinate a un percorso predefinito, strette nelle maglie di una rete, per quanto dorata.

Le ragioni di questa staticità di classe sono, di nuovo, storiche e sociali come dice Selmi, che pure mette in ogni figlio e figlia il germe di un cambiamento, per quanto lento a venire:

«Le storie di re che sposano popolane ci affascinano perché rendono possibile ciò che nella realtà non lo è. Salire la scala sociale era quasi impossibile a fine Ottocento e inizio Novecento: se nascevi operaio difficilmente finivi imprenditore o ricco, specie se donna. In alcune grandi casate, l’estrazione sociale conta ancora molto. Le eccezioni fanno notizia perché alimentano il sogno della possibilità, ma la realtà è che la povertà seleziona e riduce drasticamente le opportunità: da quelle di studio e di lavoro, dalla frequentazione di ambienti e di relazione. “Ama chi vuoi” è retorica non sempre accessibile oggi, neppure per i potenti. Figuriamoci allora.»

L’autrice Alessandra Selmi @Yuma Martellanz

Tra tante donne reali o inventate, omesse o dimenticate, sfruttate e necessarie, ce n’è un’altra che merita una menzione, a chiudere un cerchio che da lei ha preso vita e a lei ritorna nei ringraziamenti di Alessandra Selmi. Ne abbiamo parlato con l’autrice, ma riportiamo qui le parole con cui la stessa ha presentato alle lettori e alle lettrici l’uscita di Al di qua del fiume, sui suoi canali social:

Tutto è cominciato con un ricordo che stava nascosto da qualche parte nella mia testa.
Molti anni fa, la mia nonna Piera visitò il villaggio di Crespi d’Adda e ne rimase estasiata. «Vai a vederlo» mi disse. Non l’ascoltai e, travolta da mille impegni, me ne scordai. O almeno così credevo.
Poi una sera, all’improvviso, mentre ero alla ricerca di materiale narrativo su cui ambientare una nuova storia, il ricordo è tornato a galla e ha bussato per uscire: ho scritto la prima sinossi senza aver mai visitato il posto, praticamente alla cieca, ma certa di avere per le mani qualcosa di forte. Dopo sono venute ricerche, studio, appunti, incontri, scoperte, troppi caffè, crisi isteriche, letture, lacrime di gioia, abbracci, bozze, dubbi, riscritture.
Oggi, a distanza di più di 22 mesi da quel ricordo, tenendo finalmente in mano il mio elefantino, da qualche parte mi sembra di sentire la mia nonna Piera che ripete: «Te l’avevo detto che dovevi andare a vederlo».

Al di qua del fiume. Il sogno della famiglia Crespi

Al di qua del fiume. Il sogno della famiglia Crespi

Un romanzo storico sulle orme dei Crespi di Busto Arsizio, da generazioni tengitt (tintori), finché Cristoforo Crespi fonda nel 1877 un cotonificio e un intero sistema-paese in funzione di esso. Oggi Crespi D'Adda è il villaggio operaio meglio conservato d’Europa, dal 1995 patrimonio UNESCO.
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