Cosa dice l'Advaita Vedānta: uno dei più importanti sistemi filosofici orientali

Lo studioso Eliot Deutsch, tra i pionieri della filosofia comparata, delinea i dettagli e la fisionomia della più importante corrente filosofica e teologica della storia indiana: l’Advaita Vedānta. Il risultato è raccolto nel nuovo volume edito da Edizioni TLON, in libreria dal 28 luglio e compendio ideale, per concisione e puntuale approfondimento, di tale sistema di pensiero.

La collana “Radici” di Edizioni TLON si impreziosisce di un nuovo, preziosissimo, tassello. È in libreria dal 28 luglio, infatti, Advaita Vedānta. Una ricostruzione filosofica di Eliot Deutsch, con la traduzione di Adriano Ercolani.

Il volume è una perla di sintesi e nozionismo: con un linguaggio chiaro e diretto, in cui la divulgazione incontra la precisione del metodo e della dottrina, il professore di Filosofia all’Università delle Hawaii delinea la fisionomia dell’Advaita Vedānta, ossia la corrente filosofica e teologica più imponente e diffusa nella storia dell’India.

Eliot Deutsch, scomparso nel 2020, è stato, inoltre, uno dei pionieri della filosofia comparata, che, come precisa l’autore nella prefazione, può assumere diversi significati:

Per alcuni indica l’esplorazione delle filosofie (e delle religioni) non-occidentali, volta a individuare, accogliere o assimilare quei valori, idee e ambiti di interesse che si ritengono assenti nella propria cultura; per altri indica un’indagine oggettiva ed erudita dei vari pensatori e delle diverse scuole filosofiche orientali e, talvolta, il loro raffronto con i principali esponenti della filosofia occidentale, al fine di favorire una maggiore conoscenza e comprensione dell’Oriente; per altri ancora rappresenta l’articolazione di quei “modi di pensare” fondamentali, riscontrabili come tratti culturali ricorrenti delle varie civiltà, un’operazione condotta sia per semplice amore della conoscenza che come tentativo di sintesi tra filosofia occidentale e orientale.

Qualsiasi sia l’accezione assunta, è indubbio che il lavoro di Deutsch sia stato fondamentale nella diffusione del pensiero indiano, che nel saggio di Edizioni TLON trova forse la sua più alta consacrazione in termini di concisione e, al contempo, minuzioso approfondimento.

Advaita Vedanta

Advaita Vedanta

Con accuratezza e passione, Eliot Deutsch, scomparso nel 2020 e tra i pionieri della filosofia comparata, introduce il lettore nei precetti e nelle dinamiche dell'Advaita Vedanta, il più importante e diffuso sistema filosofico e teologico della tradizione indiana. Al centro, il concetto di non-dualità, ricostruito muovendosi tra gli ambiti dell'ontologia, dell'etica e dell'epistemologia.
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Che cos’è l’Advaita Vedānta?

Composto dai termini “Advaita”, “non-duale”, e “Vedānta”, “fine dei Veda” (ossia gli insegnamenti raccolti nelle Upaniṣad, nei Brahma-sūtra e nella Bhagavadgīta), l’Advaita Vedānta, esposto principalmente da Śamkara (788-820 circa), è, tuttora, il sistema filosofico e teologico più importante della tradizione indiana.

Esso, infatti, non concerne solo la mera struttura del pensiero, ma costituisce anche un percorso di realizzazione spirituale in cui “conoscere” e “essere” si incontrano e si sovrappongono, divenendo l’uno la componente essenziale dell’altro.

L’Advaitin – precisa Eliot Deutsch – è convinto che “conoscere” sia “essere”: che si possa cioè acquisire conoscenza solo essendo consapevolmente simili a ciò che si conosce, ovvero al contenuto dell’esperienza diretta.

Scopo del volume è, dunque, quello di

ricercare solo quello che è ancora filosoficamente vivo all’interno di quel sistema filosofico e affrontarlo di conseguenza.

In modo tale da offrire, anche agli occidentali digiuni di filosofia orientale, i precetti principali di una corrente di pensiero profondamente affascinante e meritevole di essere (ri)scoperta.

I principi dell’Advaita Vedānta

A costellare il sistema filosofico e teologico dell’Advaita Vedānta vi sono, infatti, dei principi basilari, a partire dai quali si dipana l’intera struttura di pensiero e ricerca spirituale da esso edificata.

Ne rappresenta il fondamento quello che si definisce Brahman, l’Uno: un concetto impersonale che identifica il «principio di assoluta semplicità onnipresente nella natura», l’esperienza «della pienezza atemporale dell’essere», dove le distinzioni tra soggetto e oggetto non sussistono e sono state annientate.

Come spiega con rigore e semplicità l’autore:

Il Brahman è esperito come puro essere non qualificato. In realtà, solo esso “esiste” veramente – il che equivale a dire che il suo modo d’essere non è equiparabile alla presunta esistenza di qualsiasi altra cosa. […] L’esperienza del Brahman è illuminante; è uno stato d’illuminazione cosciente. Ed è uno stato gioioso dell’essere.

Proprio come la “sostanza” di Spinoza, dunque, anche il Brahman sfugge a qualsiasi descrizione e non può essere pensato se non in relazione a se stesso, dal momento che include tutto e, al contempo, ne trascende le parti.

Si innesta, qui, il secondo snodo principale della corrente filosofica indiana, ossia l’esplicazione delle diverse forme dell’essere. L’Advaita Vedānta distingue, infatti, tre livelli: la realtà, ciò che «non può essere declassato da nessun’altra esperienza»; l’apparenza, ciò che «può essere declassato da un’altra esperienza»; e l’irrealtà, ciò che «non può né essere né non essere declassato da un’altra esperienza».

Il declassamento è un termine chiave della corrente vedāntica, e può essere inteso come:

Il processo mentale attraverso cui si svaluta un oggetto o un contenuto della coscienza, cui precedentemente era stato riconosciuto valore, a causa del fatto che è contraddetto da una nuova esperienza. Un giudizio su qualcosa è contraddetto da una nuova esperienza quando vi è l’impossibilità – più psicologica che logica – di agire e di orientare i propri atteggiamenti, sia sulla base del giudizio precedente sia su quanto appreso nella nuova esperienza.

La distinzione dei diversi livelli dell’essere può risultare funzionale anche nella comprensione del rapporto che sussiste tra il Brahman e il mondo. Il primo è, infatti, il creatore del secondo, anche se non sempre risulta chiaro quali siano le dinamiche di tale creazione.

Le teorie alla sua base sono due: la prima sostiene che l’effetto preesiste nella sua causa, e il Brahman, in quanto “Signore”, diviene, così, causa materiale del mondo; la seconda, invece, considera l’effetto alla stregua di una manifestazione apparente della sua causa. In entrambi i casi, però, i cardini del pensiero sono costituiti dai concetti di “illusione”, “ignoranza” e “sovrapposizione”.

L’illusione, o “māyā” (termine, quest’ultimo, reso noto in Occidente soprattutto da Schopenhauer), è «tutta l’esperienza che è costituita, ed è derivata, dalla distinzione tra soggetto e oggetto, tra il Sé e il non-Sé», un principio “impensabile” e “senza inizio”, vero e proprio potere “creativo” del Brahman. Infatti:

In termini metafisici, “māyā” è quel misterioso potere del Brahman che ci inganna, inducendoci a scambiare il mondo empirico per realtà. In termini epistemologici, essa è “ignoranza”. Ha il potere di “celare la realtà” e anche di “travisarla o distorcerla”.

A sua volta, tale “ignoranza” agisce mediante la “sovrapposizione”, che si verifica nel momento in cui

[…] attraverso la memoria, le qualità di una cosa non immediatamente presenti alla coscienza sono attribuite o proiettate su un’altra cosa che è presente alla coscienza e che con essa viene identificata.

La domanda iniziale, tuttavia, resta valida: in che modo il Brahman interagisce con il mondo, plasmandolo? Eliot Deutsch ce lo spiega con il concetto di “līlā”, “gioco” o “divertimento”, secondo cui il Brahman crea il mondo «per pura gioia di farlo». La creazione, quindi,

non è informata da alcun motivo egoistico. È spontanea, senza scopo. Al creatore, nella sua attività, non è collegata alcuna conseguenza morale, poiché la “līlā” è di natura completamente diversa da ogni azione che produce risultati che vincolano, e determinano, colui che la compie. La natura del Divino è semplicemente quella di creare, proprio come è nella natura dell’essere umano inspirare ed espirare.

Una volta compresa l’unicità e la non-dualità della realtà, l’essere umano può, così, giungere alla sua realizzazione. Conoscendo se stesso, infatti, può conoscere anche il reale, dal momento che non vige, tra di essi, alcuna differenza.

In questo contesto, dunque, si inserisce il concetto di “Ātman”, ossia:

[…] quella coscienza pura, indifferenziata e splendente in sé, oltre il tempo, lo spazio e il pensiero, che è non-differente dal Brahman e che sottende e sostiene la persona umana individuale. È un potere supremo di consapevolezza, trascendente rispetto alla coscienza sensoriale ordinaria, consapevole solo dell’unità dell’essere. L’Ātman è quello stato dell’essere umano cosciente in cui le divisioni di soggetto e oggetto, che caratterizzano la coscienza ordinaria, sono superate.

Affinché la realizzazione sia completa, però, occorre liberarsi dal ciclo di innumerevoli nascite, morti e rinascite che caratterizza le nostre esistenze. Come? Intervenendo su uno dei precetti indiani forse più diffusi nel mondo occidentale: il “karma”.

Lo studioso lo definisce una «“finzione utile”, una teoria che non è dimostrabile, ma è utile per interpretare ciò che viene esperito», grazie alla relazione che instaura tra le proprie azioni e il proprio modo di essere e al suo conseguente ricorso per la formulazione del concetto di “schiavitù”, dalla quale è necessario liberarsi quanto prima.

Advaita Vedānta e la meditazione

Ma come è possibile liberarsi? Una via è offerta dalla meditazione e, nello specifico, dalla disciplina mentale-spirituale del “jñāna-yoga”, suddivisa in tre fasi principali:

  • L’“ascolto”, che rappresenta la conoscenza iniziale degli insegnamenti dell’Advaita Vedānta e consiste nell’ascoltare, appunto, i saggi e nello studiare i testi sacri;
  • Il “pensiero”, che concerne l’assimilazione e l’interiorizzazione dei precetti da parte del ricercatore advaitico, il quale, mediante il supporto di un guru o di un “maestro”, riconosce la natura del Brahman e la sua commistione di coscienza, essere e beatitudine, i diversi livelli dell’essere e la distinzione tra realtà e apparenza;
  • E, infine, la “meditazione costante”, in occasione della quale «il discepolo deve meditare, deve mantenere un’intensa concentrazione sull’identità tra Sé e la Realtà. Dissociandosi dal gioco fenomenico della sua vita superficiale, ne deve diventare testimone».

E così, una volta liberato, l’individuo potrà vedere il Brahman ovunque, acquisendo il

potere di essere e vedere che non esclude nulla e include tutto. Il Brahman è uno. Tutto ha il suo essere nello spirito: tutto, nel suo vero essere, è Brahman.

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