Stefano Dionisi è stato molti personaggi diversi nella sua vita, dal cantante Carlo Boschi, interpretato in Farinelli- Voce regina, il film che lo lanciò ne 1994, passando per le interpretazioni in Sostiene Pereira e in Bambola, fino ai ruoli, rigorosamente da buono, che gli piacerebbe recitare, un giorno, come confidato in un’intervista per Il Fatto Quotidiano.

Gandhi l’ha già fatto Ben Kingsley, chi altri c’è di buono? Ce ne sono tanti in realtà di personaggi, potrebbe anche essere un Che Guevara che comunque è un medico per cui ci sta che sia buono, perché buoni si nasce e chi fa il medico, anche se poi come lui sceglie un’altra scelta, è una persona che si dà davanti al dolore, alla sofferenza e al sangue. Ma io non faccio il medico, per cui…

Quello che, forse, Dionisi non si aspettava di diventare è un scrittore; invece l’attore romano si è eccezionalmente trasformato anche in quello quando, nel 2015, ha dato alle stampe La barca dei folli, titolo che colpisce subito la vista, andando dritto al cervello, e che ti spinge a chiederti “perché?”.

La barca dei folli. Viaggio nei vicoli bui della mia mente

La barca dei folli. Viaggio nei vicoli bui della mia mente

La lotta di Stefano Dionisi con la sua salute mentale in un libro confessione sincero e senza filtri.
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Perché queste parole, e poi quel sottotitolo, “Viaggio nei vicoli bui della mia mente”?

Dionisi, abituato a svestire i propri panni per mettere quelli di un altro, a diventare un tutt’uno con il suo personaggio, stavolta ha scelto di mostrare se stesso al 100%, fragilità comprese; e di raccontare quel dettaglio della sua vita, fino a poco tempo rimasto custodito segretamente e gelosamente in quel piccolo angolo di vita privata che è riuscito a ritagliarsi nel suo essere personaggio pubblico, per darlo in pasto al pubblico. Pronto a essere giudicato, anche, ma soprattutto intenzionato a lanciare un messaggio agli altri: non siete soli, non siete gli unici.

Perché Dionisi, in quelle pagine, su quella “barca dei folli”, conduce a un viaggio davvero particolare dentro la propria malattia, fra le pieghe di quel disturbo mentale che fa parte di lui e che oggi non si vergogna più di sentire parte del suo essere.

Durante le riprese di un film, in Spagna, quando è già un attore affermato, Stefano, preda di un attacco di panico, tenta la fuga da tutto e da tutti, e si spinge fino a un paesino disabitato dell’Estremadura.

Quando lo ritrovano, lo rimandano in Italia, e lì scatta per lui il primo ricovero in un ospedale psichiatrico, a Pisa. Dionisi non la nomina, ma dalle pagine del libro la si intuisce.

La barca dei folli è un cammino accidentato e denso di alti e bassi, in cui Dionisi racconta, con estrema sincerità e senza cercare del facile pietismo, l’ascesa e la caduta continua non dell’attore, ma del malato, tra risalite, cambi di strutture, terapie diverse, l’uso degli psicofarmaci e le penose ricadute. Perché non c’è niente di male a raccontare di avere un problema, di essere in difficoltà, neppure se sei ricco e famoso e gli altri ti riconoscono per strada.

Tra un ricovero e l’altro, Dionisi risale, con la psicanalisi, alla radice del problema, quell’abbandono paterno subito durante l’infanzia che ora, più di trent’anni dopo lo spinge alla ricerca del genitore assente, fino a incontrarlo, a stabilire con lui un legame, ad affrontare i mille sensi di colpa reciproci. Da un lato, quello del padre che ha abbandonato, dall’altro il suo, del figlio che si sente responsabile per quell’abbandono e quindi di meritarlo.

Ma sul suo cammino, nel percorso da malato, Stefano si scontra e incontra con un universo intero di sfumature umane, dal ragazzo aspirante suicida dopo la fine di un amore a quel Giovanni Battista che passa il tempo sdraiato a guardare il soffitto pensando di essere un santo, fino al Furioso che si crede vittima di un complotto organizzato dal padrone della Virgin Airlines. Ma anche lui, del resto, è convinto di essere perseguitato.

Il suo libro è un resoconto sincero, umano, di un viaggio nel buio, scritto non per esaltare artisticamente la pazzia e le sue forme come segno distintivo del genio, ma esclusivamente per darne una testimonianza, vivida e dettagliata. Insomma, se in una prossima vita Dionisi volesse reinventarsi, i panni dello scrittore gli starebbero bene quasi quanto quelli dell’attore.

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