È il 5 settembre 2017. Tre mesi prima un click su “prenota” ha cambiato le vite di Micaela, Julien e i loro due bambini, che ora sono pronti per lasciare la loro casa a Firenze e la vita conosciuta finora. Destinazione, il mondo.

Oggi, dopo cinquantamila km percorsi a piedi, innumerevoli aerei, 42 treni, un paio di biciclette, tantissimi tuk-tuk, un nuovo arrivato in famiglia, un’infinità di esperienze – condivise sul profilo Instagram @likemiljian – questa incredibile avventura arriva in libreria nel romanzo Se due che come noi.

Un inno alla vita, al coraggio e alla speranza ispirato alla loro storia, fatta di gioie immense ma anche di momenti difficili, a volte terribili. Il racconto di una storia d’amore, di una famiglia, di un’avventura, ma soprattutto una storia di libertà, e di scelte.

Abbiamo fatto una (lunga!) chiacchierata con l’autrice Micaela Miljian Savoldelli – che oggi vive a Bali con Julien e i loro tre piccoli giramondo – che ci ha parlato del libro e dell’incredibile viaggio che lo ha ispirato, ma anche di maternità e di cosa significhi essere donne, soprattutto quando si decide di uscire dal percorso che la vita sembra aver già tracciato per noi.

Se due che come noi

Se due che come noi

Quando Selvaggia arriva a Firenze ha vent’anni e un passato scomodo. È scappata portando con sé solo un bagaglio di dilemmi e irrequietezza, per vivere appieno quelli che è convinta saranno gli ultimi anni della sua vita. Jules è francese, ama suonare la chitarra di notte a cavalcioni sul terrazzo e ogni giorno cambia itinerario, alla ricerca dell’inaspettato. Che puntualmente arriva, per entrambi, la sera del 24 ottobre 2009, in una serata tra amici, musica e blackout. Selvaggia e Jules non sanno cosa li aspetta, ma il destino ha già deciso per loro. E quando la vita li metterà di fronte alla prova più dura, proprio nel momento che per tutti gli altri è il più sbagliato, Selvaggia e Jules decideranno di seguire il proprio istinto e partire per realizzare quello che devono a se stessi, un’avventura schietta e dolce, nata da una promessa scambiata all’alba: qualsiasi cosa accadrà, non smetteranno mai di credere alla magia di quella sera.
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Il libro è ispirato a una storia vera, che è ovviamente quella della vostra famiglia, ma quanto c’è di autobiografico e quanto di romanzato? Nel libro, la scelta di cambiare vita è in quei 15 minuti di tempo prima di cliccare su “prenota”. È stato veramente così anche il vostro «facciamolo»?

È stato davvero così, ho impiegato più tempo a scriverlo che a prendere la decisione, che è arrivata ancor prima di metterci a fare i calcoli. È il fatto di aver già preso la decisione che poi ti spinge a fare i calcoli. Poi c’è effettivamente stata la pianificazione, l’itinerario, tutto il resto. Noi siamo una famiglia normalissima, avevamo dei soldi da parte ma non così tanti, un budget molto limitato per stare sei mesi nel sud est asiatico ma non saremmo andati molto oltre, quindi c’erano varie strategie da dover trovare ed è così che poi abbiamo messo in pratica il nostro piano. Noi abbiamo preso questa decisione la sera, il giorno dopo abbiamo mandato la disdetta del contratto di affitto della casa di Firenze e tre mesi dopo eravamo sull’aereo.

A proposito del budget, una risposta comune di fronte alle esperienze di vita come la vostra è spesso: «eh ma poi come vivi? Chi prende e parte coi figli è già ricco e se lo può permettere», come se in un certo senso ci fosse un “paracadute” economico che rende il salto meno rischioso. Ma cosa significa davvero lasciare tutto e partire? Come si fa? È tutto nella pianificazione?

Prima di tutto direi la motivazione, prima ancora dell’organizzazione. È quello che ti anima, che ti dà la forza di andare oltre le difficoltà che ci sono dal primo giorno quando uno prende una scelta del genere. Devi essere fortemente motivato, noi abbiamo sempre lavorato e sono onestissima, è stato molto difficile. Non solo il viaggio di per sé, che è una prova costante, di te con te stesso e di te con i tuoi compagni di viaggio. È stato molto difficile proprio perché non avendo questo paracadute economico per poterci permettere la nostra avventura eravamo costretti a trovare una serie di soluzioni che ci consentissero di continuare. C’è stato tantissimo lavoro dietro, un lavoro in condizioni estreme, così come lo era il viaggio. Non eravamo in casa con i bambini a scuola e otto ore di lavoro, eravamo perennemente in movimento. Soprattutto i primi mesi cambiavamo posto ogni tre-quattro giorni, perché l’itinerario quando lo pianifichi sul divano a Firenze è super semplice, poi insomma!

Sì, immagino che nella pratica poi sia un po’ diverso. 

Ci spostavamo ogni tre giorni, non avevamo nemmeno una strategia per fare le valigie, quindi ogni volta era disfare e rimettere, con i bambini molto piccoli, e poi soprattutto noi avevamo sempre vissuto con una casa, quindi non avevamo idea di cosa potesse essere vivere diversamente. I primi tre mesi sono stati molto tosti, sia a livello lavorativo che a livello umano, individuale e di crescita personale. Ci siamo resi conto dopo che il primo mese – in cui sembra di essere in una lunga vacanza – inizi a sentire dentro di te quella esigenza del «adesso ho voglia del mio letto», che però non c’è mai. Quindi ti spingi, ti sradichi oltre la tua comfort zone per trovare delle soluzioni. A un certo punto, però abbiamo sentito proprio dentro di noi il momento in cui eravamo liberi. Non cercavamo più una casa, abbiamo cominciato a viaggiare davvero e il mondo è diventato la nostra casa. Questa è una delle cose più complesse in assoluto. Sì può pensare che i bambini siano l’impedimento, ma non lo sono mai stati, mai.

A proposito di questo, a un certo punto nel libro la tua protagonista chiede «Vuoi dirmi che adesso ci sono delle regole obbligatorie quando si ha una famiglia?». In effetti, c’è un’idea radicata che dopo figli non si possa più viaggiare, soprattutto quando sono molto piccoli, o che si possa invece farlo solo nei posti certificati kid friendly, con il mini club mentre mamma e papà sono sotto l’ombrellone. Voi invece siete la prova che non è vero. Qual è il segreto?

È molto impegnativo, è una messa alla prova molto grande. Il segreto non sta nei soldi, né nel lavoro, né nel senso di adattamento, perché quello si apprende. Il segreto sta nella coppia. Il segreto sta nella stabilità e nel rispetto che c’è tra due persone e nel concepire che in una situazione più difficile delle altre bisogna aiutarsi a vicenda. La storia di Selvaggia e Jules è molto simile alla nostra e nel libro ho cercato di proprio rispondere a questa domanda «Come si fa? Come riesci?». La risposta sta in quello che ci è successo prima di quel famoso 5 settembre del 2017. Quando siamo partiti per fare questo viaggio ci siamo sempre sentiti appoggiati l’uno dall’altra, anche se come coppia abbiamo vissuto dei momenti difficilissimi, perché un viaggio ti mette alla prova come coppia e soprattutto come coppia che lavora insieme. Per me il segreto sta in questo, nello scegliere un buon compagno di viaggio. E i bambini lo sentono. Loro sentivano quando stavamo bene noi e stavano bene anche loro. Che poi i bambini dormono ovunque, hanno dormito su treni, su materassi per terra… Sta veramente tutto nella testa dell’adulto. Penso però che sia stato possibile anche per un’altro aspetto che è spiegato nel libro e che è diventata parte integrante della nostra storia. Noi siamo diventati viaggiatori diventando genitori.

Parli del viaggio on the road in Vietnam che hai fatto al secondo mese di gravidanza?

Esatto: il nostro primo vero viaggio importante lo abbiamo programmato e acquistato poco prima di sapere che poi l’avremmo fatto con Tino nella pancia. Questo ha cambiato la nostra storia: era già un confine superato, andare oltre l’idea che quando si è incinta non si possa viaggiare è stato importante. Nella mia testa c’era l’idea «non ho voglia di rinunciare a questo viaggio perché non voglio che il primo insegnamento che do a mio figlio sia “ho avuto paura di fare qualcosa”. Voglio provare». Questo ha segnato la base di tutto il nostro percorso, perché quando si è trattato di partire con due figli per fare il giro del mondo era quasi più semplice che partire con un bambino solo nella pancia.

Il tuo è un libro su tante cose, sulla vita, sulla speranza, sull’amore, ma anche sulla maternità, sui tanti modi di diventare madre ma anche su quegli aspetti della maternità meno rosei e retorici che ancora la società continua a non voler vedere. Selvaggia invece vuole comunicare con le altre donne, trovare un contatto. 

È stata la ragione primaria, quella che mi ha spinto non solo tanti anni fa a creare Likemiljian ma a scrivere questo libro. Per me scrivere è stato molto complesso e ho dovuto fare un tuffo in un passato doloroso e ci sono stati dei momenti in cui ho sofferto moltissimo per scriverlo, però continuavo a dirmi «sai perché lo stai facendo e sai per chi lo stai facendo».
Non è un caso che sia quasi esattamente a metà del libro, ma è stata la mia esperienza dopo la nascita del mio primo figlio che ha completamente cambiato la mia esistenza e mi ha aperto una nuova porta verso il mio essere donna. Ci tenevo tantissimo che questo fosse presente nel libro, perché se la mia storia poteva aiutare anche solo mezza persona un minuto nella vita, tutto lo sforzo che ho fatto ne sarebbe valso la pena. [La depressione post partum] è qualcosa di cui non si parla ancora, c’è sempre questa idea che un bambino nasce e d’improvviso tutto è meraviglioso e perfetto. Ma non è così. Diventare mamma è molto difficile, non solo come donna, ma anche come coppia, cosa che ho provato a trasmettere facendo parlare anche la parte maschile, dando voce ai pensieri di Julien. Volevo che passasse non solo un messaggio, ma anche un braccio teso verso chi ne ha bisogno. Per me è veramente il cuore del libro, che non parla di un viaggio – a meno che per viaggio non si intenda la vita – ma della storia vera di una coppia e della loro evoluzione, in cui il viaggio è solo l’elemento massimo di libertà.
Il mio percorso come mamma e come donna è interamente all’interno delle pagine di questo libro e spero di essere riuscita a renderlo quanto volevo renderlo e arrivare quanto volevo arrivare, dovevo dire questa cosa perché mi bruciava dentro.

La tua è una protagonista che si autodefinisce femminista e, anche se il fulcro del racconto sono Selvaggia e Jules, nel libro le donne hanno ruolo importante, sia nella presenza ma anche nell’assenza. Quanto sono state importanti le figure femminili nella tua vita e nel tuo percorso «non convenzionale»?

Io ho sempre sentito che c’era una storia dentro di me, forse proprio per questo sono scappata con 100€ in tasca. Avevo bisogno di risposte ed è sul mio percorso che le ho trovate, attraverso queste “donne satellite”. Io mi sono dissociata molto dalla classicità nel rapporto madre-figlia, che è sempre stato molto turbolento, e fin da quando ero giovane ho sempre cercato di trovare risposte nei libri e negli incontri che ho fatto per costruirmi come donna. Perché vivere donna è difficile, ma laddove si trova qualcuno sensibile e aperto tutto diventa molto più semplice.

Io ho avuto queste presenze ed è come se in un certo senso avessi vissuto varie vite. C’è stato un momento in cui ho toccato con mano l’essenza dell’essere donna attraverso queste figure che incontravo ed è come se mi si fosse aperto un mondo. Ho incominciato a capire cosa si potesse davvero fare, quanto le criticità potessero essere trasformate in forze e che quando noi donne lo facciamo possiamo spaccare il mondo, soprattutto quando ci diamo una mano l’un l’altra. Queste figure sono state fondamentali nella mia costruzione di donna e poi successivamente di madre. Fondamentali. Le mie varie mamme, che mi hanno preso sottobraccio nonostante non fossero mamme di sangue, hanno fortemente trasformato il mio percorso e io sono rimasta estasiata, in ascolto di queste donne che ognuna a modo suo mi ha aperto una visione di qualcosa.

Come colei che nel libro prende il nome di Françoise, che mi ha insegnato un altro modo di vivere maternità, di mostrare affetto, di prendersi cura delle persone. Ancor prima che io diventassi mamma mi ha fatto capire che c’era la possibilità di mettere in pratica qualcosa di diverso rispetto a quello che ci viene insegnato da quando siamo piccine e rispetto a quello che la nostra cultura vuole. È una battaglia che si può portare avanti e che si riesce a mettere in pratica.
Con la nostra scelta abbiamo voluto trasmettere questa tipologia di insegnamento, facendo vedere ai nostri figli che sì, ci sono gli ostacoli, ma che si possono superare e che la vera casa è il mondo. È qualcosa che cerco di fare tutti i giorni, anche se non è facile, e ogni giorno mi interrogo se sia la cosa giusta.

Proprio all’inizio del libro Selvaggia si chiede: “Quale era il trucco? Avere coraggio, uscire dal tracciato, seguire l’istinto?”. È questo il trucco?

Per me Micaela, poi trasposta in Selvaggia, lo è stata. Lo è stato ad esempio per l’esperienza del mio parto, per cui ho scelto di andare controcorrente. Il primo parto non corrispondeva a quello che in realtà sentivo dentro di me, quindi per il secondo mi sono detta «me ne frego di tutto quello che pensa chiunque, io sento che devo partorire in casa». Anche quella è stata un’esperienza che mi ha veramente aperto un mondo di competenze e professionalità che mi ha fatto sentire ancora più potente. C’è una frase che ho messo nel libro, di un’ostetrica che ho incontrato qui a Bali, che dice «il parto per una donna è la porta verso la spiritualità». Per me è stato così.

Nel libro, che è un inno alla libertà, c’è anche la rivendicazione della libertà e della scelta anche nel percorso della maternità e della genitorialità.

Sì, senza però voler dare risposte. Questa è stata la mia strada, ma il luogo ideale è sempre quello in cui la donna si sente al sicuro. L’idea è: l’importante è conoscere, cercare, informarsi. Esiste la scelta, si può scegliere. Si può scegliere se partorire in ospedale, se a vent’anni rimanere nella città dei tuoi genitori a fare il percorso di studi che hanno pensato per te, oppure no. Puoi avere dei figli, oppure no. Ma c’è sempre una scelta. Partire per un giro del mondo con due bambini non è per forza la scelta ideale e perfetta, anzi. Però si può scegliere, c’è la possibilità. A partire dal momento in cui smettiamo di essere passivi, di essere protagonisti di un film che in realtà qualcun altro ha scritto per noi, e cominciamo a essere registi, ci rendiamo conto che abbiamo le cose in mano. Il mio libro voleva essere un inno alla rinascita, ma anche un inno all’istinto.

A proposito di possibilità, prima del Covid-19 decidere di lasciare tutto e partire era – quasi – solo una questione di coraggio. Invece, per la prima volta, la possibilità di salire su un aereo con un biglietto sola andata non c’era più, come se il campo di infinite possibilità che avevamo sempre saputo di avere si fosse ristretto improvvisamente. Ora si parla di almeno un dipendente su 3 pronto a lasciare il lavoro per inseguire un sogno, di revenge tourism e «viaggi della vita». Tu come pensi che siano cambiate da questo punto di vista le cose? 

Salute a parte, che va sempre al primo posto, credo che la pandemia sia stata un’occasione per tutti quanti noi, nessuno escluso, di rivedere le proprie priorità. Io ho sentito tantissime storie e tutti i giorni incontro persone che hanno rivoluzionato la loro vita durante la pandemia. Hanno trovato la spinta per prendere quella decisione che non avevano mai preso, che può essere qualsiasi cosa, come sentire la mancanza della famiglia e decidere di riavvicinarsi o cambiare città. Cambiare vita si può fare in qualsiasi momento, molte persone hanno avuto un sogno per tutta la vita e durante la pandemia hanno capito come renderlo possibile, si sono ricostruiti lavorativamente e personalmente.
Quello in cui ci ha limitato la pandemia è stato il viaggio turistico, ma non la possibilità di scegliere di cambiare. In più, si sono costruite altre tipologie di legami, abbiamo potuto riconnetterci con l’altra parte del mondo in modi che prima non c’erano. Anche solo in questo senso se vogliamo vedere il positivo è stata un’evoluzione magnifica, sotto tanti punti di vista.
Nel momento del bisogno puoi capire quello che è più giusto per te. È un po’ come la scrittura, non la controlli, ci sono delle cose che accadono e basta.

Selvaggia cuce «per tenere insieme i pezzi», tu scrivi. È la stessa spinta ad animarvi? Hai detto che «la scrittura non la controlli». Dopo Likemiljian, come è nato il bisogno di un romanzo? 

Negli anni ho ricevuto molte proposte editoriali, ma ho sempre dato priorità al mio viaggio perché credo che la scrittura sia disciplina, quindi sarebbe stato molto complesso riuscire a gestirla. Tutto questo tempo, da quando è arrivata la prima proposta editoriale a quando ho finito di scrivere, però, mi è servito per costruire esattamente quello che volevo. Quando mi sono seduta davanti al computer non è stato semplice. Poi c’è stato un momento che ha cambiato tutto, grazie alle parole di una persona – che è diventata il mio maestro – che mi ha detto «Micaela apri il rubinetto, lascia uscire. Non tentare di controllare quello che dici, scrivilo. Uscirà da sé». Io non credevo fosse possibile, invece c’è qualcosa che è scattato in me e la storia è venuta fuori. Non la gestivo più, la conoscevo perché era ispirata alla nostra, ma la maniera in cui era espressa non era quella che pensavo sarebbe stata.
La scrittura è stata anche un modo per trovare risposte, prima di tutto alla domanda «ma come è possibile che abbiamo fatto questa avventura, che io oggi come donna mi ritrovi qui, in questo preciso punto?». James Joyce dice «quando io scrivo lascio i miei personaggi muoversi, e nel frattempo mi limo le unghie» ed è veramente quello che accade quando si decide di lasciarsi andare e non avere controllo. La storia mi bruciava i polpastrelli e quando è uscita mi sono resa conto che era esattamente quella che volevo raccontare: non la storia di un viaggio, ma del perché si viaggia.

Girare il mondo per 3 anni, incinta, con due bambini e un grande sogno | INTERVISTA
Micaela Miljian Savoldelli
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