Carolina Capria e il corpo-campo di battaglia delle donne | Intervista

"Le donne sono considerate come pezzi di carne: da sessualizzare, far rientrare in una taglia, modificare affinché siano più gradevoli e, ovvio, come uteri-fornetti. La donna non è mai considerata come essere umana nella sua totalità". Intervista a Carolina Capria, autrice del saggio "Campo di battaglia".

C’è il corpo della donna che, se “bianca e abile”, esiste solo dal menarca: da quando cioè diventa oggetto di controllo, raccomandazioni e non è più di proprietà dell’improvvisamente “signorina” che lo abita.
C’è l’industria della bellezza che alza l’asticella, alimenta le nostre insicurezze con nuovi stratagemmi e, delegittimate le rubriche che ci dicevano cos’era in o out sui rotocalchi, ora ti vende la bufala che lo stai facendo per te stessa.
C’è l’altra di industria, quella della fertilità che sulle donne fa soldi facili e sicuri, e che ci vuole tali e quali a come ci pensava Aristotele, ovvero uteri da usare come “il fornetto in cui [l’uomo] ripone [il dolce] per la cottura”; come scrive Carolina Capria che, tra gli altri, ha un dono prezioso: sa spiegare concetti complessi in modo semplice.

Scrittrice, sceneggiatrice e insegnante di scrittura creativa, Capria fa per il femminismo italiano quello che la poeta Wislawa Szymborska ha fatto per la poesia e sintetizzato negli ultimi due versi di Ogni Caso: quando ammette la fatica che serve per dire parole pesanti facendole sembrare leggere.

Fondatrice nel 2018 di L’ha scritto una femmina, progetto social di grande successo, e dal 2021 co-fondatrice della Scuola di Lettura Josephine March, Carolina Capria è convinta di aver sviluppato questa dote a forza di scrivere libri per ragazze e ragazzi e incontrali nelle scuole: il che probabilmente è vero, tant’è che ci incontriamo via meet a conclusione di una sua lezione con oltre 70 studentesse e studenti.
Fatto sta che nel saggio Campo di Battaglia – Le lotte dei corpi femminili edito da Effequ, in libreria dal 24 novembre 2021, c’è tanto, tanto pensiero; ma al tempo stesso trattasi di un lavoro che, senza sacrificare la complessità del discorso, è di ‘facile’ lettura.

L’occasione dell’intervista è appunto l’uscita di questo saggio che chiunque può leggere (e dovrebbe), perché parla sì di femmine – ché, per dirla con un recente titolo per bambini co-firmato da Capria con Mariella Martucci, Femmina non è una parolaccia – ma non solo alle femmine. E poi perché l’autrice riesce nella doppia impresa di rendersi comprensibile al pubblico digiuno di femminismo e introdursi con autorevolezza nel dibattito attuale scansando il problema che affligge parte della saggistica e della letteratura femminista italiana, che non di rado sembra confondere divulgazione e semplificazione.

Proprio perché i temi dell’opera di Capria sono tanti e densi, nel corso dell’intervista scelgo di seguire – senza troppo rigore – il fil rouge della bellezza, in qualità di millenario “capitale delle donne”, educate sin da piccole a essere carine, piacenti, compiacenti e a identificare nella loro desiderabilità la propria ‘moneta’ per una mobilità sociale diversamente a lungo preclusa.

Oggi il femminismo sembra aver fatto a pezzi canoni e stereotipi di bellezza… Ma il tuo saggio mostra che il re, anzi, la regina è più nuda che mai e che non è proprio così: semmai il sessismo introiettato ha trovato nuove forme per continuare a fare a pezzi le donne. 

Parto dalla mia esperienza di adolescente negli anni ’90. Di cosa dovevamo preoccuparci davvero? Di una ceretta fatta dal ginocchio in giù, a un certo punto delle sopracciglia troppo folte, di truccarci tanto e male… (ridiamo!).
C’erano altre dinamiche iper problematiche, coscienza femminista zero, ma d’altra parte oggi l’industria della bellezza alimenta le nostre insicurezze in modo esponenziale nei confronti di parti del corpo rispetto alle quali non saremmo mai riuscite a immaginarci in difetto. Non si tratta più o solo di labbra, pancia, fianchi, ma persino di labioplastica, ovvero chirurgia estetica della vulva, intervento in crescita tra le giovanissime. E poi filler per qualsiasi cosa, laminazione delle ciglia, cavitazione per la cellulite… Il problema non è il diritto di ognuna di noi di scegliere cosa fare al e del proprio corpo: non giudico né accetto che si svaluti una donna per il fatto di aver fatto ricorso alla chirurgia, mai! Credo però che dobbiamo interrogare noi stesse e capire se quel ‘lo faccio per me stessa’, sia sincero o la bugia introiettata per continuare ad aderire a un ideale altrui.

La preoccupazione di Capria nell’affrontare l’argomento è palpabile e merita il disclaimer che segue per non tradire, oltre che la sua fiducia, il suo pensiero.

Esprimere un pensiero senza far sentire in colpa altre persone rispetto a scelte differenti e legittime è difficile.

Per questo nel saggio, l’autrice quando parla di un corpo in modo conflittuale o per metterne in evidenza pensieri contraddittori, parla del suo; dichiarando in modo esplicito di essersi imposta tempo fa di non parlare più del corpo di un’altra donna.

Le insicurezze e il desiderio di sistemare pezzi di un viso o di un corpo che non si piace sempre, e di cui parla Carolina Capria, appartengono anche all’autrice stessa, che dalle sue insicurezza e dal suo desiderio parte per proporre una pratica sia personale sia collettiva di auto coscienza, magistralmente sintetizzata in questo pezzo del saggio di cui riporto alcuni stralci:

Che raggiungere l’ideale di bellezza richieda una certa dose di sacrificio è sotto gli occhi di tutti, ma perché siamo disposte ad accollarcelo? Ci sottoporremmo a un intervento in anestesia totale con relativo percorso di guarigione per diventare più generose? O a una ceretta total body ogni mese per acquisire la scaltrezza che ci manca? […]
Il 92% dei 17,1 milioni di interventi estetici che sono stati effettuati nel 2016 aveva come paziente una donna. Si tratta di una percentuale talmente netta da permetterci di dare per assodato che la ricerca della perfezione abbia a che fare non tanto con la perfezione in sé, come concetto, ma con il riconoscersi donna e vivere da donna in questo mondo. Il difetto da correggere, ammettiamolo, è il genere a cui sentiamo di appartenere.

Il titolo del saggio ricalca l’opera fotografica realizzata da Barbara Kruger nel 1989, Your body is a battleground.
E su questo campo di battaglia restano corpi di donne fatte a pezzi, sempre più piccoli. Indicativo, in questo senso l’indice del volume che dal prologo-Corpo, si articola nei capitoli Sangue, Rughe, Capelli, Cosce, Aspetto, Ossa, Utero, e chiude nell’epilogo Occhi, orecchie, mani.

È sotto gli occhi di tutte e tutti ogni giorno. Le donne sono considerate come pezzi di carne da sessualizzare, o da far rientrare in una taglia, in uteri-fornetti, in micro pezzi impensabili di corpi su cui la chirurgia estetica andrà a spillarci prossimamente nuovi soldi a fronte di nuovo insicurezze indotte… La donna non è mai considerata come essere umana nella sua totalità. E invece io vorrei che smettessimo di parlare (male) dei corpi o, come scrivo, “vorrei che tutte avessimo la possibilità di non avere un corpo, se lo desideriamo, e di essere, e basta”.

A questo proposito, in Campo di battaglia dedichi uno spazio a mio avviso prezioso al tema dei disturbi alimentari, argomento a te particolarmente caro, peraltro al centro del tuo romanzo La circonferenza di una nuvola (Harper Collins, 2020). Per decenni l’immagine dei DCA era quella della ragazza che vuole essere bella e che consuma il suo corpo per diventare magra come una modella.
C’era, e io credo ci sia ancora, un enorme pregiudizio rispetto ai DCA, e in particolare all’anoressia, banalizzati spesso come forma patologica di una frivolezza, tipicamente femminile, e quindi alla volontà di tendere a ogni costo alla bellezza.
Tu restituisci una visione molto più critica e lucida sul tema, cercando di nuovo di rimettere insieme i pezzi del corpo delle donne.

Semplifico il concetto, parlando di anoressia e bulimia, ma è bene precisare che i DCA sono molti di più e molto più complessi. Affamare il proprio corpo o, al contrario, sovra alimentarlo sono azioni che non hanno a che fare con una volontà di essere più belle o più piacenti. Al contrario, i DCA sono una richiesta di potere e di spazio: una forma di malessere e ribellione che non trova la strada delle parole e delle azioni e si riversa sul corpo e sull’unico modo che una donna ha davvero di controllarlo: sottrarlo alle aspettative sociali in cui è ingabbiato, fino a farlo scomparire o debordare. In quanto donne la società ci chiede di abitare i nostri corpi come oggetti, cedendo il controllo ad altri (padre, marito, morale, religione…). Quando rivendichiamo il diritto all’autodeterminazione e a decidere cosa farne dei nostri corpi – come usarli, come  vestirli o trattarli – sin da bambine veniamo rimproverate, rimesse a posto.
Il DCA è il modo in cui molte adolescenti, e non solo, si sottraggono a questo controllo: comprenderlo è fondamentale per aiutare davvero chi sviluppa disturbi alimentari. 
Precisazione: parlo di donne per statistica e interesse specifico, ma lo stesso presupposto è alla base dei DCA nei maschi. Il maschilismo non fa male solo alle donne.

“A chi ha indicato la strada, a chi la sta percorrendo, a chi arriverà”, è la dedica che apre il libro che, del resto, si chiude sull’importanza di questa eredità ricevuta e da tramandare. Tu hai grande fiducia nelle nuove generazioni di bambine, bambini, ragazze e ragazzi, di cui in molte persone parlano invece nei toni dispregiatori tipici di chi fatica o non vuole cedere il passo o vive il nuovo come minaccia.

Io ci credo tantissimo. E sento molto anche la responsabilità che ho nei loro confronti.
Io voglio parlare con le bambine e le ragazze che incontro e che, mi rendo conto, a volte mi prendono a modello, del fatto che anche io non mi piaccio e ragionare insieme su questo. 
Proprio perché sono stata molto ispirata da alcune donne del passato e del presente, credo profondamente nell’esempio, nell’importanza di fare scelte consapevoli. 
Dobbiamo essere tutte e tutti coscienti che i nostri comportamenti influenzano le persone attorno a noi.
Io leggo poesie, stralci di libri scritti da donne che amo, provo a dare voce a donne che sono state silenziate o sottovalutate o peggio e, soprattutto, cerco di riportare i grandi concetti del femminismo a una pratica quotidiana, prima di tutto mia. Altri tipi di influenze che, mi rendo conto, potrei avere a fronte dei ‘numeri social’ attuali, ho scelto di non agirle. 
Ma questa è la mia regola, non è universale e non è a priori più o meno legittima di altre scelte.
Ognuno sceglie il suo modo di fare pratica femminista. Lato mio, credo nella potenza eversiva delle piccole o grandi decisioni politiche che ognuno prende nel suo quotidiano: come per esempio quella di non commentare più i corpi delle donne.

È difficile. 

Tanto.

Del resto il femminismo è questo: scegliere di cambiare, rivoluzionare il proprio modo di agire, pensare e leggere la realtà. Chi è femminista lo sa bene: è necessario monitorare costantemente il proprio maschilismo introiettato che abbiamo tutte e tutti… Nessuno di noi nasce femminista in questa società e diventarlo è un lavoro su se stesse o se stessi di autodisciplina. 

Concordo. Il femminismo è un esercizio di consapevolezza e di messa in discussione costante. 
Non basta dire abbasso il patriarcato, se poi quel patriarcato siamo noi, nei nostri comportamenti quotidiani.
Non bastano le parole – che pure sono importanti -, se queste non trovano corrispondenza nei nostri gesti.  

Il nostro corpo per millenni è stato un campo di battaglia. E lo è ancora. Ci hanno fatte a pezzi, sempre più piccoli, come scrivi bene tu. Eppure a un certo punto rilanci, con una convinzione liberatoria, quando dici che “essere femmine è un’opportunità”. Cosa intendi?

Ogni giorno che passa ne sono sempre più convinta. Essere donne ci ha storicamente obbligate e abituate all’indagine. Proprio perché discriminate, vessate, costantemente in pericolo o silenziate, le donne hanno indagato i grandi temi che le riguardano. 
Essere donna significa aver ricevuto un’eredità filosofica e di pensiero enorme. Il femminismo alla fine è questo: la più grande rivoluzione di pensiero. 
Gli uomini non hanno ancora avuto questa necessità di indagine: per questo sono monolitici e oggi sono così spaesati e incapaci di pensare un modo alternativo di essere al mondo. 
A volte penso a tutto il potenziale che è stato sprecato: quante donne silenziate, quanto talento avvizzito, quanto dolore. Non voglio essere spirituale, ma io credo che tutta questa vita inespressa l’abbiamo respirato, la respiriamo ogni giorno: ci è stata passata nel DNA e, anche per questo, abbiamo un compito che ci lega le une alle altre. 
Per questo credo che essere donne sia una grande opportunità, così come credo molto nel tenersi per mano con le donne che sono state e con quelle che saranno.

Campo di battaglia. Le lotte del corpo femminile

Campo di battaglia. Le lotte del corpo femminile

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