Come funziona il self publishing, ma soprattutto: ha senso autopubblicarsi?
Non è un fenomeno nuovo il self publishing, ma l’avvento di piattaforme online l’ha reso molto popolare: cosa sapere prima di scegliere se autopubblicarsi.
Non è un fenomeno nuovo il self publishing, ma l’avvento di piattaforme online l’ha reso molto popolare: cosa sapere prima di scegliere se autopubblicarsi.
I casi in cui un libro autopubblicato ha avuto fortuna sono diversi. Ci piace citare Alice senza niente di Pietro De Viola, nato come ebook scaricabile online da un blog – e letto in breve da ben 35mila lettori, che in Italia non sono pochi – prima di diventare un volume pubblicato da un editore vero e proprio.
Self publishing è l’espressione anglofona che usiamo per parlare di autopubblicazione di un libro. Consiste nel fenomeno secondo cui alcuni autori decidono di pubblicare un libro – cartaceo o digitale – a proprie spese, ma in senso più ampio può coinvolgere riviste (per esempio le fanzine autoprodotte) o anche i blog personali.
Non si tratta di una novità nel mondo dell’editoria, ma qualcosa che risale al XVIII secolo. Alcuni dei più grandi autori della storia della letteratura si sono autopubblicati, da Emily Dickinson a Marcel Proust, da Virginia Woolf a Walt Whitman.
Il fenomeno coinvolge autori e autrici che, non desiderando passare per le trafile tradizionali dell’editoria – sia quelle degli editori veri e propri sia quelle degli editori a pagamento – scrivono, editano, confezionano e pubblicano, rivolgendosi a una tipografia o su una piattaforma online, il proprio libro.
L’autopubblicazione non va infatti confusa con l’editoria a pagamento, in cui editore e autore suddividono gli oneri o l’autore paga l’editore come si trattasse di un tipografo. Per capire la differenza vale la cosiddetta “legge di Yog”: se i proventi restano totalmente o quasi allo scrittore (e con essi i diritti d’autore), vuol dire che si tratta di autopubblicazione.
Non ci sono grossi vantaggi per l’editoria, se non il fatto di avere a disposizione una varietà di voci.
Il pluralismo è sempre un bene? In teoria sì. Sebbene la censura sia a priori sbagliata, viviamo in un’epoca in cui si confondono convinzioni strumentali con opinioni in maniera completamente immodesta. L’avvento dei social network hanno instillato in alcune persone la consapevolezza errata che si possa scrivere qualunque cosa, ma dovrebbe valere sempre la massima per cui ogni nostra libertà è limitata dalla libertà degli altri.
Per gli scrittori ci sono vantaggi innegabili, come la velocità di pubblicazione, i costi spesso ridotti, il controllo totale del proprio scritto e i potenziali guadagni. Ma i guadagni non sono assicurati.
C’è un però. A volte si vuole pubblicare qualcosa per una platea ristretta, magari delle memorie per famiglia e amici: con le piattaforme di self publishing si riesce a ottenere un risultato soddisfacente in tal senso senza i costi di una tipografia sul territorio che di solito sono ben più alti (anche perché richiedono un numero minimo di copie da stampare).
Ci sono ovviamente dei contro al self publishing, che sono:
Esistono moltissime piattaforme su cui poter pubblicare. Tra queste:
Vorrei vivere in un incubo di David Lynch. #betweentwoworlds
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