"Per farla finita con la famiglia": un'altra idea di genitorialità | INTERVISTA

Secondo la ricercatrice e attivista Angela Balzano, «la biologia è un gigantesco caso di mansplaining: gli uomini che ci spiegano come siamo fatte». Per opporsi alla biologia come principale indicatore della genitorialità, quindi, la filosofa ci invita a ragionare sulle altre forme di famiglia, per liberare il corpo delle donne dal biocapitale, ribaltare i ruoli di genere e abbracciare legami transpecie.

È possibile un’altra idea di famiglia? Secondo Angela Balzano, sì. Ma quali sono i metodi per concretizzarla?

La ricercatrice e attivista, coordinatrice e docente del Master in Studi e politiche di genere dell’Università Roma Tre e tutor del corso “Women and Law” per il Master GEMMA dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, lo spiega in Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane, edito recentemente da Meltemi Editore.

Dalle lotte per la liberalizzazione dell’aborto alle differenti pratiche di fecondazione assistita, dalla necessità di inclusione del non-umano al ribaltamento dei ruoli di genere, fino alle risorse della tecno-scienza e alla promozione di legami transpecie, Balzano ripercorre le fasi storiche che hanno assoggettato il corpo della donna e lo hanno reso, con le parole di Foucault, «la cosa medica per eccellenza».

Delineando, tra slogan e proposte di azioni concrete, il profilo di un nuovo concetto di famiglia e parentela, che sia in grado di accogliere e prendersi cura anche di ciò che umano non è – animali, piante, territori, diatomee – e, soprattutto, garantisca una piena autodeterminazione sessuale che liberi la donna dal suo «destino biologico», combattendo i nazionalismi e ridistribuendo equamente la responsabilità genitoriale. Affrancandosi, così, dal biocapitale e abbracciando un’etica compostista, nel pieno rispetto delle forme di vita “altre” dall’umano.

Ne abbiamo parlato direttamente con Angela Balzano, che nella sua carriera di «precaria eco/cyborgfemminista» ha curato le traduzioni di Rosi Braidotti, Melinda Cooper, Catherine Waldby e Donna Haraway e ha collaborato con Carlo Flamigni, luminare della fecondazione assistita e da sempre complice delle donne e partecipe delle loro lotte.

Per farla finita con la famiglia

Per farla finita con la famiglia

Un'altra idea di famiglia è possibile? Dall'aborto alla contraccezione, dalla fecondazione assistita alle nuove conquiste della tecnoscienza, Angela Balzano propone forme alternative alla parentela cellulare, in grado di abbracciare anche animali, territori, piante e tutto ciò che umano non è.
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Per farla finita con la famiglia è un vero e proprio manifesto, politico, sociale, umano: qual è stata la scaturigine del testo?

“Nella scrittura ci ho messo il corpo perché non ho saputo fare altrimenti, ci ho messo il personale perché l’ho sentito parte di un collettivo. È a partire dalle contraddizioni che vivo come femminista nel XXI secolo che ho cominciato a scrivere. Ho scritto con il desiderio che mi lavora sempre dentro: il desiderio di sovvertire i rapporti tra generi/specie/classi/razze.

Le contraddizioni sono un tutt’uno con il posizionamento, perciò condivido la mia collocazione, o se preferite la mia genealogia filosofico-politica-esistenziale. Sono una precaria/nomade della ricerca e della didattica, figlia della cultura biotech, ignoro quasi cosa sia una mucca pur vivendo nella parte di mondo che produce e inquina più di quello che consuma per allevarne una. Cresciuta tra amianto e petrolio, tra mafia e camorra, al mare ma con lo sguardo rivolto alla raffineria di Milazzo, in terre inghiottite da termovalorizzatori e rifiuti tossici, mi chiedo se devo trovare una statistica ufficiale che attesti che il cancro all’utero e i vari al seno di mia madre, e di tutte le altre madri/zie/sorelle/madrine/cugine/amichediamiche, siano collegati all’inquinamento seguito all’industrializzazione criminale del sud Italia.

Migrante, dalla Sicilia in fiamme alla Campania Felix fino al paese di Spinoza, sono riatterrata a Bologna per capire che per me lo studio è affetto, l’affetto è lotta. Ho studiato prima e dopo le manifestazioni, soprattutto durante. Con (e grazie a) moltissime sorelle ho capito che su questo corpo sessualizzato si iscrivono norme e politiche, flussi di capitale e confini dello Stato-nazione. Le collettive e le reti femministe che ho attraversato sono le bussole temporali di questo libro. Da Guai a Chi Tocca alla Collettiva XXX, dalla Favolosa Coalizione a Non Una Di Meno passando per Obiezione Respinta e La Mala Educación: queste lotte si intrecciano agli interrogativi cui cerco di rispondere nel volume.”

E le bussole dove ti hanno portata?

“Allo scopo del libro: quello di comprendere in che misura, al tempo delle nuove tecnologie, la riproduzione sia diventata sito di dispositivi di soggettivazione e assoggettamento dell’umano (biocontrollo, biopotere), potenza transpecie da espropriare e mettere a valore (zoecapitale), luogo ad alta potenzialità conflittuale, crocevia di desideri e possibilità di vie di fuga da praticare insieme tra umane e non umane (fabula speculativa, attivismo e fantascienza femminista). Ho cercato di mostrare il modo in cui le tecnologie della vita diano luogo a nefaste idiosincrasie.”

Qual è questo modo?

“In primo luogo, non è affatto scontato che siano accessibili ovunque e per tutte: la classe e la razza, il contesto geopolitico tracciano precisi confini. La riproduzione non è per tutt*, la schizofrenia del sistema è evidente: si impone alle eterosessuali la riproduzione ostacolando l’accesso all’aborto, si nega a gay, lesbiche e persone trans di riprodursi quando ne avvertono il desiderio, ad altre latitudini vengono imposte sterilizzazioni forzate oppure viene interdetto l’accesso alla contraccezione.

In secondo luogo, non è detto che la ri/produzione dell’umano non arrechi danni a terz*: ad altri generi, razze e specie. Qualcuna si spinge sino a dire che la Grande Accelerazione Umana (Haraway) ha già provocato l’estinzione di troppe forme di vita e continuerà a farlo fino a quando non saremo in grado di decrescere ri/produttivamente, vale a dire di elaborare un sistema ri/produttivo alternativo al biocapitalismo.

Penso sia questo desiderio di alterità ad avermi indotta a scrivere un libro che fonde filosofia politica e fantascienza femminista.”

Obiettivo primario del volume è, appunto, quello di decostruire la supremazia della famiglia “cellulare”, in favore di altre forme di genitorialità e parentela. Per farlo, prendi le mosse dal corpo femminile, «la cosa medica per eccellenza». Sorge, però, spontaneamente un dubbio: come possiamo rivendicare la nostra autodeterminazione in un Paese come l’Italia, in cui l’obiezione di coscienza è al 70%? Quali azioni concrete possiamo ancora attuare per liberare i nostri corpi dal dominio maschilista?

“Non darei mai indicazioni del tipo “per la liberazione femminista girate a sinistra”: sono cresciuta tra collettive e università autogestite e credo che le vie di fuga si con-ricerchino, si scavino proprio insieme. Nel primo capitolo, ad esempio, dopo aver tracciato il quadro dell’offensiva neofondamentalista all’autodeterminazione sessuale e riproduttiva concentrandomi su aborto e contraccezione, mi affido alle attiviste che sono riuscite a dare risonanza a una metamorfosi molecolare nello spazio pubblico, rendendo visibili le forme di vita non fasciste, trasformandole in vie di fuga collettive e in strumenti di lotta per rispondere all’avanzata neofondamentalista, non limitandosi alla difesa dell’esistente, ma rivendicando #moltopiùdi194.

Se mi chiedi come si fa a raggiungere l’autodeterminazione sessuale e riproduttiva la mia risposta è: seguendo le suggestioni di movimenti e collettivi transfemministi e antirazzisti, con rivendicazioni e negoziazioni, percorsi di autogestione e autoformazione collettiva della salute, con la promozione della cultura della non prevaricazione, con la rivendicazione di piena libertà di movimento, pieno riconoscimento delle genitorialità non biologiche e non eteronormate, con il reddito di autodeterminazione.

Grazie a gruppi come La Mala Educación e Obiezione Respinta posso dirmi parte di un transfemminismo che preferisce autogestire la propria salute, creare reti tra donne, persone non eteronormate e medici per far circolare saperi minori. Proviamo tutti i giorni a sottrarci a quello che tu chiami dominio maschilista e che io chiamo biocontrollo. Credo infatti che gli attuali rapporti di forza non siano rubricabili sotto il solo lemma “patriarcato”. Ma chi vorrà approfondire sul punto potrà leggere il libro.”

Aborto e contraccezione, anziché progredire nel loro cammino, sono, infatti, sempre più ostacolati, soprattutto dai nazionalismi insidiatisi in tutto il mondo. Penso alla recente norma sull’aborto in Polonia, ma anche alle Regioni italiane governate dalla destra – Piemonte, Abruzzo, Umbria e Marche – che stanno limitando l’accesso alla RU486. Quale futuro ci aspetta? E come possiamo combattere queste derive? Ma soprattutto: di che cosa hanno paura i neofondamentalisti?

“L’analisi del neofondamentalismo italiano che conduco nel primo capitolo rende evidente come i dispositivi biopolitici degli Stati-nazione si fondino sul controllo dei nostri corpi per orientarli alla riproduzione dell’umano nella forma della famiglia eterosessuale nucleare. Da questa particolare collocazione geopolitica, dal paese della legge 40 (che ancora non permette l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita a lesbiche/gay/trans) e della legge 194 (che rende i medici più liberi delle donne, dal momento che ancora prevede i setti giorni di riflessione e l’obiezione di coscienza), si comprende come l’ingiunzione alla riproduzione si accompagni sempre a politiche razziste, neofasciste, antiambientaliste.

Credo che cogliere i nessi tra le altissime percentuali di obiezione di coscienza all’aborto, le altissime percentuali di biossido di azoto e le troppe persone morte nel Mediterraneo cercando di raggiungere l’Italia sia un buon inizio per ripensare l’intero sistema ri/produttivo e affrontare il problema per ciò che è veramente: un terribile mix di conservatorismo cristiano-cattolico/anti-ecologismo/razzismo. Penso che occorra lavorare per la proliferazione delle alleanze: femministe eco/trans/cyborg, antirazziste insieme a personale medico-sanitario, biologhe/i, registi, poeti, hacker, ginecologhe, ostetriche…

Poi certo, si possono e si devono sempre condurre lotte specifiche, sul piano della 194 si potrebbero far convergere le energie, seguendo le emozionanti lotte argentine, polacche e irlandesi, si potrebbe fieramente chiedere #moltodipiùdi194. Proprio come ha fatto Non una di meno Bologna in dieci punti. Peccato che, a oggi, di tutto ciò abbiamo ottenuto solo la RU486 a 63 giorni e senza ospedalizzazione (in verità, neppure sappiamo in quante Regioni sia davvero così e quante si stiano opponendo). Il tutto grazie alle lotte femministe e alle associazioni di medici. Ci rimangono, però, ancora nove punti da assaltare. Direi che potremmo leggere il dato in un’ottica foucaultiana: «c’è ancora molto da divertirsi, per essere rivoluzionare non c’è bisogno di essere tristi».”

Tra i numerosi espedienti citati, un modo innovativo e rivoluzionario per liberare le donne dal proprio «destino biologico» e redistribuire la responsabilità di cura familiare sarebbe l’ectogenesi. Ancora in fase di sperimentazione, che cosa potrebbe garantire in più rispetto alle altre forme di genitorialità attualmente vigenti? E come rispondere alle opposizioni che la pratica suscita?

“Per superare le contraddizioni e le problematiche di cui è foriera la fecondazione assistita, occorre interrogarsi su quali alternative tecnologiche abbiamo a disposizione per rispondere alle richieste dei genitori intenzionali. Riusciremo a immaginare uno scenario in cui l’ectogenesi sostituirebbe i cicli di gestazione per altr*? I genitori intenzionali accetterebbero di esternalizzare la loro riproduzione nel caso in cui la gestante fosse un utero artificiale e non una donna?

Tra le bioeticiste femministe c’è oggi chi sostiene che l’ectogenesi potrebbe garantire, tutelare e promuovere la redistribuzione del lavoro riproduttivo tra i generi. Nel libro Equal Opportunity and the Case for State Sponsored Ectogenesis (2015) Kendal, ritenendo la gravidanza un compito gravoso, si chiede perché i rischi, non solo biologici, connessi alla riproduzione della specie umana debbano ricadere solo sulle spalle delle donne. L’autrice sostiene che l’ectogenesi potrebbe liberare le donne dagli eccessivi sacrifici economici, sociali e fisici che la gravidanza comporta. Concorda su questo punto anche un’altra bioeticista, Smajdor, che si spinge fino ad affermare che la gravidanza è una condizione che causa dolore e sofferenza e affligge solo le donne. Per Smajdor, il fatto che gli uomini non debbano rimanere “incinti” per ottenere un figlio a loro geneticamente legato, mentre le donne si, è un’ingiustizia naturale (The Moral Imperative for Ectogenesis, 2007).

Le motivazioni per cui l’ectogenesi solletica le fantasie di cyborg e transfemministe sono in sintesi: non solo le biologicamente assegnate donne diventerebbero madri, non solo la biologia sancirebbe il legame genitoriale e il lavoro ri/produttivo potrebbe di conseguenza essere ripartito in modi inediti. Ciò che ci affascina è (per fortuna!) ciò che terrorizzano neofondametalisti e neoliberisti è che la riproduzione non passi più solo per la famiglia mononucleare eterosessuale.

Nutro tuttavia un timore che non celo: che la biobag rimanga poco accessibile. Condivido, poi, il rischio segnalato da Braidotti: che la madre sia assimilata al sistema tecnoindustriale per rispondere alle esigenze legate alla riproduzione di bambini bianchi, da lei giustamente definiti come bene primario nel sistema monetario postcapitalistico (Braidotti, Madri Mostri Macchine, 2005). Ma se le etimologie contenessero in sé germi di speranza, diremo che quella di ectogenesi veicola buone nuove.”

Ossia?

“Quando, nel 1924, il biologo J.B.S. Haldane ha coniato il termine, ha fuso le parole greche ectos e genesis, presumibilmente volendo enfatizzare l’estraneità del processo riproduttivo dal corpo umano. Ectos in greco significa esterno ma anche estraneo. Addirittura, al plurale ectoi significa “stranieri”. Umano straniero all’umano per via della tecnogenesi? Oppure, giocando con le etimologie: in greco antico ectos significava anche oltre, lontano, al di là. Un invito a varcare la soglia, a esplorare questi parti extrauterini per uscirne vive ma postumane? O portiamo questa lettura al suo estremo? Un invito a farla finita con la riproduzione dell’umano? Genesi in greco non significa solo nascita, ma anche “divenire”.

Capovolgiamo allora l’etimologia, ispirate dalla fanta/tecnoscienza femminista: ectogenesi come divenire oltre. Pensate agli usi dell’ectogenesi fuori dalla nascita dell’umano (è del resto sugli animali non-umani che è stata sperimentata). Se volessimo, potremmo usarla per popolare i rifugi di tutti quegli animali non umani di cui abbiamo causato l’estinzione in natura. Nell’orizzonte di una decrescita ri/produttiva, nel caso di un’auspicabile rispristino degli eco-sistemi più devastati, pensate al potenziale della biobag se si moltiplicassero le reti di biohacker, attiviste eco-femministe e antispeciste!”

Il testo ha una prospettiva corale e invita a far proprio, tra gli altri, lo slogan di Donna Haraway, «generare parentele, non popolazioni». Come possiamo coltivare il “compostismo” promosso dalla filosofa statunitense? E dare, così, vita a quello che definisci un «continuum umano-animale- macchina»?

“Prendo sul serio, come eredità problematica e responsabilità segnata dentro il corpo, l’invito di Haraway a “generare parentele non popolazioni!”: che diminuisca l’umano, la sua pretesa di riproduzione a scapito di sessi e specie seconde, le sue arroganti esigenze. In nessun modo ho intenzione, però, di ricadere nel normativismo: mi sembra più interessante sciogliere il suo slogan in tanti veloci freestyle, ognuno dei quali corrispondenti a possibili lotte, percorsi di accoglienza, pratiche di genitorialità non etero e transpecie, parentele postumane. Incontrerete diversi ritornelli in rima nel terzo capitolo del libro. L’intenzione è quella di trasformare i freestyle in un album, di far diventare l’invito di Haraway un’agenda etico-politica riassumibile in tre slogan, perché non si ricada nel normativismo ma neppure nel relativismo.”

Quali sono, allora, questi tre slogan?

“Contro ogni sorta di neofascismo e razzismo, il primo punto dell’agenda insiste sul nodo dell’accoglienza delle persone migranti e delle genitorialità che non riproducono il sapiens bianco occidentale e il suo slogan è: «gambe chiuse, porti aperti!». Le nostre scelte sessuali e riproduttive possono rivelarsi potenti strumenti di lotta contro il dilagare di vecchi e nuovi nazionalismi: a fronte dell’uso crescente in Occidente delle tecnologie di riproduzione assistita per garantire la bianchezza della propria prole, invito all’adozione e all’affido, all’abbandono della biologia quale principale indicatore di genitorialità, in favore di una presa in carico delle migrazioni in essere e a venire, per farla finita con la famiglia come incubatrice dello Stato-nazione.

Il secondo punto è forse il più ambizioso perché contiene in sé il ripensamento del sistema ri/produttivo occidentale e una sentita critica al delirio della crescita senza limiti del capitale e alla devastazione ambientale di cui è foriero. Lo slogan del secondo punto – «generare parentele postumane per la rigenerazione del pianeta!» – è al contempo un invito a tessere legami transpecie non antropocentrici e un ribaltamento del riduzionismo scientifico/filosofico/politico. Per secoli ci hanno raccontato la storiella dell’uomo che si fa da sé, come se nessuna lo avesse messo al mondo e come se il mondo stesso non lo rimettesse in vita ogni giorno. Sono le parentele postumane a rigenerare noi e il pianeta, non c’è sistema produttivo che regga senza la garanzia di riproduzione e rigenerazione transpecie.”

Ma come si fa a «generare parentele postumane per la rigenerazione del pianeta»?

“Potremmo farci ispirare da esperienze come AgriPunk, fare rifugio e farci humus inventando proprio qui e ora nuove forme di convivenza animale umano/non-umano/macchiniche. Esperienze come questa potrebbero instradarci alla ricerca di modalità relazionali antispeciste sostenibili negli spazi urbani, sollecitarci a ridurli/modificarli.

Un altro modo per tessere parentele postumane, di sicuro ascrivibile a politiche più classicamente oppositive ma nondimeno necessarie, è quello di opporsi all’estrattivismo, alla deforestazione, alle monoculture e agli allevamenti industriali, alla privatizzazione di saperi e ricerca, alla messa a valore della vita biologica umana e non. E questo è possibile localmente a partire dai territori che viviamo, globalmente sostenendo le lotte che molte comunità ecoattiviste conducono altrove per la decarbonizzazione dell’economia, contrastando la stipula di trattati e accordi che penalizzano i paesi in via di sviluppo. Lottare contro il capitalismo e il neoimperialismo significa resistere a politiche g/locali che hanno effetti non solo nei territori di volta in volta interessati. Il blocco degli allevamenti industriali in Occidente o in Cina contribuirebbe alla lotta contro la deforestazione dell’Amazzonia e per la liberazione dei suoi popoli facendo calare la domanda (e la produzione) di soia transgenica.”

E il terzo e ultimo slogan, qual è?

“Il terzo punto dell’agenda si scaglia contro l’alleanza tra neofondamentalismo e neoliberismo, contro l’imperativo alla riproduzione che si sostanzia in legislazioni che liberalizzano le nuove tecnologie quando si tratta di fecondazione assistita e criminalizzano quando si tratta di aborto. Il suo slogan è: «autodeterminazione sessuale contro il biocapitale!». Immagino così la decrescita ri/produttiva, non come un’imposizione, ma come autodeterminazione. Se solo le donne potessero ovunque scegliere, se ovunque l’aborto non fosse reato, se l’accesso alle tecniche fosse facilitato, quanto sarebbero diverse le attuali statistiche demografiche? Di quanto cambierebbero se prendessimo in considerazione la tecnoscienza femminista e cominciassimo a investire in contraccezione ormonale maschile?”

Qual è il tuo auspicio?

“Mi auguro che questa agenda ci aiuti a perseguire una decrescita ri/produttiva che non colpevolizzi i desideri, ma che sappia interrogarli, che sappia evitare di instillare sensi di colpa ma che non ci deresponsabilizzi. La sovversione del sistema ri/produttivo in cui siamo immerse, che è ancora sistema binario dei due generi egemonici, implica capacità di resistenza e conflitto dentro e fuori di sé. Non è un sillogismo, né un’equazione, non basta dire “- umani = + pianeta”. Ci sono troppe altre variabili, etica ed economia in primis. Il nostro stesso attivismo si farà compostista allora, proverà a muoversi su tutti e tre piani: chiuderemo le gambe, apriremo i porti, ci alleeremo alle altre specie, produrremo di meno e soprattutto produrremo diverso.”

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