Grazia Deledda, tra le 16 Nobel per la Letteratura (101 i maschi) e non la leggiamo

Se qualcun* scoprirà questa donna o leggerà Grazia Deledda grazie alla curiosità suscitata da questo scritto, allora questo articolo avrà avuto senso e svolto una preziosa funzione di restituzione alla memoria e rappresentazione. Ed è più di quanto chi lo ha scritto possa chiedere.

Proviamo a contare le donne, come ci insegna Michela Murgia.
Da quando è stato istituito, nel 1901, il Premio Nobel per la Letteratura è stato assegnato 113 volte a 116 intellettuali, di cui 101 uomini e 16 donne.

E ora che abbiamo contato, nominiamole queste donne:

  1. 1909 – Selma Lagerlöf
  2. 1926 – Grazia Deledda
  3. 1928 – Sigrid Undset
  4. 1938 – Pearl Buck
  5. 1945 – Gabriela Mistral
  6. 1966 – Nelly Sachs
  7. 1991 – Nadine Gordimer
  8. 1993 – Toni Morrison
  9. 1996 – Wislawa Szymborska
  10. 2004 – Elfriede Jelinek
  11. 2007 – Doris Lessing
  12. 2009 – Herta Müller
  13. 2013 – Alice Munro
  14. 2015 – Svetlana Alexievich
  15. 2018 – Olga Tokarczuk
  16. 2020 – Louise Glück

Grazia Deledda è l’unica donna italiana cui è stato conferito il premio, con la seguente motivazione:

Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano.

Gli altri cinque italiani insigniti dell’onorificenza sono infatti tutti uomini e, nella fattispecie, sono Giosuè Carducci (1906), Luigi Pirandello (1934), Salvatore Quasimodo (1959), Eugenio Montale (1975) e Dario Fo (1997).

Nomi noti, questi maschili, che anche lo studente più distratto non può non ricordare di avere almeno sentito nominare.
Nomi di scrittori e poeti su cui si sono spese interrogazioni, voti e pomeriggi a imparare a memoria versi da recitare alla lavagna.
Anche Dario Fo, che pure nei programmi scolastici di noi ragazzi ancora non compariva, ha impresso la sua firma tra quelle ufficialmente riconosciute della cultura italiana, come gli altri citati a buon diritto.

Ma Grazia Deledda?
Nelle antologie (anche odierne) è relegata a molte meno pagine dei suoi illustri colleghi e non è raro pronunciare il suo nome rendendosi conto che non dice nulla all’interlocutore non addetto ai lavori, ma anche ad alcuni presunti o reali appassionati di libri e letteratura.

Eppure è la scrittrice italiana che ha vinto il Nobel ed è nella rosa delle 15 che hanno conquistato quel riconoscimento che, in 119 anni, è stato appannaggio maschile (tranne queste eccezioni).
Perché la nostra scuola la ignora?

Che la letteratura femminile sia stata oggetti nei secoli di discriminazione non è un mistero.
Si è sempre pensato – e i programmi scolastici ne sono dimostrazione – ai libri scritti dalle donne come libri di seconda categoria e, soprattutto, come a libri scritti per le donne, come se la loro arte non potesse essere riconosciuta universalmente, con uguale dignità di quella maschile, dal pubblico, dalla critica letteraria stessa, dagli intellettuali e, ovvio, dalla scuola stessa.

I nomi femminili internazionali che avrebbero meritato e continuano a meritare uno spazio nella formazione di studenti e studentesse (possiamo dirlo con certezza, più di alcuni autori minori sempre presenti) sono tanti e ancora faticano a imporsi. Uno dei casi più eclatanti è senz’altro quello di Virginia Woolf, ma si potrebbe procedere a un elenco infinito che omettiamo qui solo perché sarebbe incompleto e basato su esclusioni.

Lo stesso, va da sé, è accaduto e accade con i nomi italiani: da Elsa Morante, Patrizia Valduga, Alda Merini, Natalia Ginzburg, a Sibilla Aleramo, Matilde Serao, Antonia Pozzi (e l’elenco, anche in questo caso, per ragioni di spazio, non può che essere una lunga omissione) la nostra cultura letteraria scolastica è basata su una lunga rimozione, inframezzata da qualche gentile concessione (poche pagine in qualche antologia, spesso saltate per finire il programma dei nomi – maschili – che contano) e dalla scelta di alcun* insegnant* illuminat*.

E infatti chi è Grazia Deledda?
Molti studenti non saprebbero, non tanto nominare una sua opera, ma etichettarla come “scrittrice”.
Palare di una rimozione, ha lo scopo di tentare una piccola compensazione della stessa.
E allora proviamo a tributare a questa grande intellettuale italiana qualche parola.

Chi è Grazia Deledda, che per la verità ricevette il premio nel 1927, perché nel 1926 l’Accademia Svedese sospese l’attribuzione del Nobel, e che peraltro era già stata candidata varie volte, la prima tra tutte nel 1913?

Io racconto di uomini e di donne.

Scrive Grazia Deledda, giusto per chiarire che non parla solo di donne (né solo alle donne), in Cosima, romanzo autobiografico pubblicato postumo e incompiuto nel 1937 (nell’agosto dell’anno prima la scrittrice infatti muore dopo una lunga lotta contro un tumore al seno).

Con una consapevolezza precoce, in una delle numerose lettere a linguista e anarchico Angelo De Gubernatis scrive di se:

Sono piccina piccina, sa, sono piccola anche in confronto delle donne sarde che sono piccolissime, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie intellettuali.

È il 1893, Deledda ha 22 anni. Nata a Nuoro, nel 1871, quarta di sette fratelli, comincia a scrivere prestissimo, come del resto lei stessa dice nell’incipit del discorso di ringraziamento che pronuncia a Stoccolma:

Sono nata in Sardegna. La mia famiglia, composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei.
Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora; se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta. Senza vanità anche a me è capitato così.
Avevo un irresistibile miraggio del mondo, e soprattutto di Roma. E a Roma, dopo il fulgore della giovinezza, mi costruì una casa mia dove vivo tranquilla col mio compagno di vita ad ascoltare le ardenti parole dei miei figli giovani.

Per la precisione è nel 1900 che sposa Palmiro Madesani, impiegato dell’intendenza di finanza che poi lascia il lavoro per diventare a tempo pieno agente letterario della moglie, e i due si trasferiscono a Roma: luogo cruciale per l’artista che è determinata a imporsi sulla scena letteraria e intellettuale italiana.

Eppure per tutta la vita, questa donna caparbia e modernissima, alimenta la sua arte con i caratteri primitivi e selvaggi della sua terra d’origine. Le sue maggiori opere originano da lì e sono insieme un atto d’amore per l’isola natia e la libertà della sua natura incolta e una presa di consapevolezza dell’arretratezza patriarcale e terriera di cui la sua famiglia è un esempio e dalla quale Deledda necessita prestissimo di emanciparsi (in seguito a una serie di lutti che vedono la morte precoce del padre, di una sorella, nonché l’alcolismo e la piccola delinquenza cui si dedicano due fratelli).

Riprendo il discorso del Nobel, la scrittrice della sua vita dice:

Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio. Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo.

Questa poesia primitiva è quella che abita Elias Portolu. Storia di una famiglia di allevatori sardi, di amore, peccato e di fede, è l’opera che nel 1903 la consacra alla critica (che comunque non sarà clemente con la donna).

Cenere, romanzo pubblicato nello stesso anno a puntate, racconta con grande modernità la discriminazione e l’infamia subita da una donna a seguito di una relazione con un uomo sposato, da cui nascerà un figlio (quello dell’adulterio nella produzione di Deledda è un tema ricorrente che fa luce sulla condizione femminile e sull’ipocrisia della società italiana ultra cattolica e borghese).
Da questo romanzo a puntate venne in seguito tratta una riduzione cinematografica con protagonista Eleonora Duse.

Ma è Canne al vento l’opera più nota della scrittrice sarda, che mutua il titolo da un passo di Elias Portolu – Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne, pensaci bene. Al di sopra di noi c’è una forza che non possiamo vincere – e racconta la fragilità dell’uomo contemporaneo, in bilico tra le sue origini rurali e modernità, progresso e futuro che avanzano inarrestabili, desiderati e temuti al tempo stesso.

In questo senso, la saga della famiglia Pintor esce dai confini della Sardegna in cui è ambientata e diventa rappresentazione di un’Italia confusa, sospesa tra la struttura patriarcale della famiglia, cui tutte (o quasi) le donne di casa sono asservite, e l’istanza di un cambiamento, che trova in Lia la ribelle, che fugge sulla penisola, si sposa e ha un figlio senza il consenso del padre.
Romanzo atroce e superbo, Canne al vento mette in scena:

  • da una parte, il perbenismo di una società tesa a salvaguardare i suoi valori più arcaici, divisi tra religione e superstizione, al prezzo di un’ipocrisia in grado di piegare qualsiasi legame familiare alla logica violenta dell’onore e dell’apparenza;
  • dall’altra la necessità di una ribellione (che non a caso parte dalla più oppressa delle sue protagoniste), per ridiscutere ideali, etica e il proprio spazio in una società libera dai pregiudizi.

Come in un romanzo del Verga – che peraltro la ammira – la sua è la lingua degli umili che combattono una battaglia più grande di loro, senza possibilità di vittoria. Ma la loro grandezza sta proprio in quel sollevare la testa come punto di partenza per innescare un cambiamento che è forse l’eredità più preziosa che, oggi come allora, possiamo lasciare dopo di noi.

Per concludere, oggi è possibile ascoltare Grazia Deledda pronunciare la prima parte del discorso tenuto a Stoccolma in questo contributo della RAI. Sentire la sua voce è un’emozione immensa; per il resto, ci sono i suoi libri (di seguito abbiamo raccolto solo alcune delle opere più famose della scrittrice nuorese).

Se qualcun* scoprirà Grazia Deledda o ne leggerà le opere grazie alla curiosità suscitata da questo scritto, scriverlo avrà avuto un valore speciale e svolto una preziosa funzione di restituzione alla memoria e rappresentazione.
Ed è più di quanto chi lo ha scritto possa chiedere.

Canne al vento

Canne al vento

Nel romanzo più famoso di Grazia Deledda, pubblicato nel 1913, si intravedono, sullo sfondo del paesino di Galte (Galtellì), tutti i mali secolari dell'isola, l'estrema povertà della Baronia e l'incubo della malaria sempre in agguato.
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Il primo romanzo lungo della Deledda è una vera e propria dichiarazione di fedeltà al proprio ambiente etnografico e linguistico, oltre che una presa di posizione rispetto all'autenticità, e all'unicità, della propria visione. Immancabile se si vuole approfondire la sua figura.
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Cenere è stato pubblicato nel 1903 a puntate nel periodico fiorentino Nuova Antologia e nel 1904 a Roma in volume unico, mentre nel 1916 ne fu realizzata una riduzione cinematografica con l'interpretazione di Eleonora Duse.
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L'ultima raccolta di novelle pubblicata in volume da Grazia Deledda nel 1933, prima della sua morte, avvenuta nel 1936, è un'opera malinconica, in cui la scrittrice nuorese si apre al tempo della riflessione, dell’accostamento alla morte di una donna che, per tutta la vita, ha lottato affinché il suo sogno diventasse realtà.
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