Nel lontano 1987 usciva sulla prestigiosa rivista di critica letteraria London Review of Books una recensione spietata del libro Intercourse di Andrea Dworkin. L’articolo, scritto con intenti demolitori da Roy Porter, affrontava il saggio della femminista americana non solo per i suoi contenuti, ma anche per l’aspetto fisico della sua autrice.

Basta leggere il fiume di sudici insulti che sgorga da questa invettiva contro il sesso e gli uomini per capire che Andrea Dworkin è una signora malata. È una lunga e isterica denuncia del rapporto sessuale come qualcosa di negativo per le donne. Il modo in cui si lamenta è ovviamente il sintomo di frustrazione sessuale. Chiaramente non sta facendo abbastanza sesso e la cosa non sorprende per una persona in sovrappeso e brutta come lei! […] la sua frustrazione l’ha trasformata in una donna che odia gli uomini. È orribile essere un uomo nel mondo di oggi. Significa essere bombardati da aggressioni androcide da parte di donne che amano odiarci.

In un recente articolo per il Guardian, la scrittrice e teorica femminista Julie Bindel racconta tutta un’altra Andrea Dworkin, non certo la “donna che odia gli uomini” descritta dallo spietato Porter. La definisce piuttosto come “la femminista visionaria e radicale di cui abbiamo bisogno in questi tempi difficili” che aveva saputo prevedere l’ondata del #METOO.

Conoscevo la vera Dworkin e la nostra amicizia decennale mi ha insegnato molto di più sull’amore che sull’odio. “Conservo le storie delle donne nel mio cuore”, mi diceva quando le chiedevo come faceva a fare il suo lavoro e restare sana di mente. “Mi incoraggiano e mi tengono concentrata su ciò che deve essere fatto.”

Chi era Andrea Dworkin

Con i suoi indisciplinati riccioli scuri e le salopette in jeans, Andrea Dworkin è stata per decenni una presenza fissa nel giro delle conferenze e delle marce durante la seconda ondata del femminismo americano, iniziata negli anni Sessanta. Nei discorsi e nei suoi numerosi libri affrontava con passione (e senza paura di suscitare polemiche) i temi legati alla sessualità delle donne, alla pornografia e allo stupro.

Come raccontato nella sua autobiografia, Andrea Dworkin nasce a Camden, nel New Jersey, una cittadina “fredda, dura e corrotta” in cui vive però un’infanzia felice, interrotta dopo il trasferimento nella periferia di Filadelfia. Cresce imparando non solo a leggere e scrivere, ma a vivere nel terrore che una bomba nucleare russa distrugga tutto: fa parte della sua formazione alla sopravvivenza, nutrita anche dalle origini ebraiche e della grave malattia che aveva colpito sua madre.

In qualche modo, sforzandomi mentalmente di respingere la paura, affermavo il mio desiderio di vivere, di essere, di sapere, di diventare. Avevo già molti dialoghi socratici nella mia testa prima ancora di leggerne uno. Ho avuto una vita interiore enorme, non così strana, credo, per un bambino o per una bambina che sarebbe diventata una scrittrice. Ma la vita interiore dei bambini non era una realtà riconosciuta in quei giorni, negli anni Cinquanta, prima che io compissi dieci anni e ci trasferissimo in periferia, un luogo di sterilità e desolazione dove nessuno aveva mai avuto una vita interiore.

Andrea si sente diversa e fin da giovanissima agogna il momento in cui avrebbe potuto andare a vivere a New York, tra i musicisti jazz, i poeti e gli scrittori. Anche lei inizia presto a scrivere e i suoi numi tutelari si chiamano Baudelaire, Rimbaud, Ginsberg, Miller e Dostoevskij. Per i suoi scritti parte dalla vita vera, ma non con un istinto autobiografico.

La mia narrativa non è un’autobiografia. Non sono un esibizionista. Non mi mostro. Non sto chiedendo perdono. Non voglio confessare. Ma ho usato tutto quello che so – la mia vita – per mostrare ciò che credo debba essere mostrato in modo che possa essere affrontato. L’imperativo al centro della mia scrittura, quello che deve essere fatto, viene direttamente dalla mia vita.

L’impegno civile

Durante il suo primo anno di università, Andrea Dworkin viene arrestata durante una manifestazione contro la Guerra in Vietnam e portata nel carcere femminile di New York. Lì vive l’esperienza più devastante della sua giovinezza, che segna per sempre la sua carriera di scrittrice e saggista.

Denuncia pubblicamente di essere stata sottoposta a un violento esame vaginale e la sua testimonianza arriva ai giornalisti, a livello nazionale e internazionale. Il gran giurì rifiuta il caso, ma l’indignazione del pubblico per il maltrattamento delle detenute porta poi alla chiusura del carcere.

Lasciati temporaneamente gli studi, parte in nave per l’Europa e si ferma a vivere in Grecia, sull’isola di Creta, dove inizia un periodo di febbrile lavoro creativo. Torna negli Stati Uniti solo per laurearsi in letteratura al Bennington College, dove aveva già iniziato il suo percorso accademico. Non è solo studio: nel campus organizza campagne a favore della contraccezione e dell’aborto.

Dopo la laurea decide di tornare nel continente europeo per intervistare alcuni leader del movimento anarchico olandese e proprio in Olanda conosce il suo futuro marito, Cornelius Dirk de Bruin. Subito dopo le nozze, lui inizia a trattarla brutalmente e a picchiarla. Alla fine del 1971 trova il coraggio di lasciarlo, ma si trova sola, senza un soldo e in un paese che non è il suo: inizia così a prostituirsi. A salvarla è la femminista Ricki Abrams, anche lei americana, che le offre una casa e l’aiuta poi a tornare negli Stati Uniti.

È stato ad Amsterdam nel 1972 che ho fatto il voto, che ho mantenuto, di usare tutto ciò che sapevo a favore della liberazione delle donne. Ho un grosso debito con il movimento delle donne: è stata una femminista che mi ha aiutato a sfuggire alla brutalità del mio matrimonio. La fuga non è una corsa una tantum per la tua vita: continui a correre e a nasconderti; si fa vivo dal nulla e ti picchia, ti minaccia, ti intimidisce, ti urla un’orrenda invettiva in pieno giorno su strade affollate, irrompe ovunque tu trovi da vivere, ti colpisce con i suoi pugni sporchi del tuo sangue e del tuo dolore.

Ricki la avvicina al femminismo radicale, sulle orme di Kate Millett, e le permette di arrivare in modo rocambolesco a New York, dove Andrea Dworkin si schiera in prima linea come organizzatrice di campagne contro la guerra, contro l’apartheid in Sud Africa e a favore delle lesbiche.

Il femminismo radicale

Dagli anni Settanta in poi Andrea Dworkin scrive sempre di più, ma le sue posizioni radicali non piacciono a tutti. In Woman hating, del 1974, mette le basi per le idee che caratterizzeranno il resto della sua carriera di teorica del femminismo radicale, come il rifiuto della pornografia e  la denuncia dell’oppressione dell’identità femminile esercitata dalla società di stampo patriarcale.

Woman Hating non era un libro fondato su un’ideologia. È nato da un’emergenza, scritto per metà sottoterra e mentre ero nascosta. Volevo scoprire cosa mi era successo e perché. Sapevo solo che era non era una cosa personale. Ho fatto un elenco di ciò che pensavo potesse influire su ciò che mi era successo e quell’elenco è diventato l’indice del libro pubblicato. Ho guardato alle fiabe e a cosa insegnavano sull’essere donne; alla pornografia – facevo parte di una generazione che la usava – e a cosa diceva dell’essere donna; alla legatura dei piedi cinese e alla caccia alle streghe – perché c’era violenza culturalmente normalizzata contro le donne; all’androginia – i miti e le idee contemporanee di una comunità non organizzata sul principio del genere, la falsità del genere stesso. Volevo esaminare la cultura: ruoli sessuali, sesso, storia, mitologia, comunità.

Nello stesso anno incontra John Stoltenberg, saggista e femminista, e tra i due nasce una fortissima amicizia che li porta ad andare a vivere insieme. Sebbene lei si identifichi apertamente come lesbica e lui come gay, diventano compagni di vita. Si sposano nel 1998 e restano insieme fino alla prematura morte della scrittrice, nel 2005, a soli 58 anni. Proprio Stoltenberg, in un articolo per il Boston Review, ha recentemente spiegato perché, pur essendo una femminista radicale, le posizioni di Andrea Dworkin non sono mai state TERF, ovvero anti transgender.

Ho ripensato al lavoro di Andrea e alle nostre conversazioni mentre riflettevo su come avrebbe risposto alle femministe radicali che si definiscono trans critical o gender critical (e che altri a volte chiamano trans esclusive o transfobiche). Queste femministe radicali credono sinceramente che “le donne come classe biologica sono oppresse a livello globale dagli uomini come classe biologica” e che “negare il sesso biologico mina le fondamenta stesse del femminismo”. In alcuni casi, invocano il nome di Andrea presumendo che, se fosse viva oggi, lo crederebbe anche lei e sarebbe una di loro. So che non lo farebbe. […] La cosa più sconvolgente per me è che l’ossessione anti-trans di questa fazione del femminismo radicale è diventata una corruzione dell’etica egualitaria e della visione umana che sono alla base della vita e del lavoro di Andrea.

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