C’è chi sostiene che Kate Millett abbia inventato la critica letteraria femminista. Secondo un articolo di qualche tempo fa dell’autorevole New York Review of books, prima di lei, non esisteva. Il suo capolavoro del 1970, La politica del sesso, oggi è fuori catalogo, ma resta un saggio seminale della seconda ondata del femminismo. Rileggendolo di questi tempi potrebbe sembrare un po’ datato, per certi aspetti, ma ciò non inficia la sua natura iconoclasta.

Con il suo j’accuse contro il patriarcato, Kate Millett attaccò in primo luogo i falsi padri della liberazione sessuale, ovvero Freud, D.H. Lawrence, Henry Miller e Jean Genet, fornendo una nuova lente attraverso cui osservare la sessualità femminile. Sosteneva che l’oppressione basata sul sesso avesse una duplice natura, politica e culturale, e ipotizzò che la disfatta della famiglia tradizionale fosse la chiave della vera rivoluzione sessuale.

Il graduale oblio a cui è stata soggetta la figura di Kate Millett è forse dovuto proprio alla necessità di continuare a rinnovare il discorso femminista. Una donna libera (e liberata) degli anni Sessanta e Settanta sarebbe sicuramente rimasta sbalordita se avesse saputo che in futuro la lotta per il matrimonio LGBT sarebbe diventata uno dei punti cardine dell’agenda di sinistra. Un altro sviluppo che l’allora giovane autrice non avrebbe potuto aspettarsi è stato il modo in cui il loro pregiudizio contro l’idea della famiglia si sarebbe incastrato con la virata del femminismo verso il carrierismo.

Da dove arrivava la politica del sesso di Kate Millett

Nata nel 1934 in Minnesota, Kate Millett fu abbandonata dal padre violento e alcolizzato quando aveva solo 14 anni. Dopo la laurea con lode in lingua inglese presso l’Università del Minnesota e un brillante master all’Università di Oxford, si trasferì prima a New York e poi a Tokyo per studiare arte, mantenendosi grazie al lavoro di insegnante. Nel 1965 sposò lo scultore Fumio Yoshimura, con cui tornò nella Grande Mela e a cui dedicò proprio La politica del sesso, frutto del suo dottorato alla Columbia University.

Il suo lavoro si basava su un’analisi letteraria incrociata con elementi di sociologia e antropologia, per definire gli obiettivi e le strategie del movimento femminista. Fu un un successo immediato e un bestseller, che trasformò Kate Millett in un personaggio pubblico. La sua tesi, non sempre storicamente accurata, si fondava sul fatto che “le civilizzazioni storiche sono state dei patriarcati: l’ideologia su cui si basano è la supremazia maschile”.

Ai gruppi oppressi è negata l’istruzione, l’indipendenza economica, il potere d’ufficio, la rappresentanza, un’immagine di dignità e rispetto personale, lo stato di uguaglianza e il riconoscimento come esseri umani. Nel corso della storia patriarcale alle donne è stato sistematicamente negato tutto questo e la negazione di tutto questo, sebbene sia attenuata e parziale ai giorni nostri, rimane lo stesso costante. L’istruzione concessa alle donne è volutamente ideata per essere di qualità inferiore, le donne sono sistematicamente formate per essere escluse dalla sfera della Conoscenza sulla quale si fonda oggi il potere — ad esempio nell’ambito scientifico e tecnologico.

E, ovviamente, il sesso era un elemento cruciale della società patriarcale.

Le donne sono confinate a condizioni di dipendenza economica basate sulla loro stessa vendita sessuale all’interno del matrimonio o in altre forme di prostituzione. Il lavoro che permetterebbe loro un’indipendenza economica offre loro in realtà solo un sostentamento minimo — spesso neanche quello. Le donne non governano, non sono rappresentate in nessun luogo di potere, l’autorità è loro negata. L’immagine della donna promossa dai media culturali, importanti e meno importanti, ieri come oggi, è quella di un’esistenza marginale e degradante, una vita al di fuori della condizione umana la quale rimane prerogativa esclusiva dell’uomo, del maschio.

Non fu semplice gestire il successo, arrivato così all’improvviso. Sentì quindi il bisogno di riflettere sulla sua vita di donna, sul suo matrimonio e sui suoi rapporti affettivi e sessuali con altre donne. Molti anni dopo raccontò la sua esperienza di maniaco-depressiva e delle crisi.

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La necessità di cambiare

Intervistata nel lontano 1976 dalla rivista Effe, Kate Millett raccontava di aver già superato il linguaggio del suo primo libro, che in realtà era una tesi per il suo dottorato. Abbandonato un tono più accademico e freddo, si era rivolta davvero alle donne, per ascoltare le loro storie. Negli Stati Uniti era già uscita la sua autobiografia, Flying (tradotto poi in Italia come In volo), uno strumento indispensabile per comprendere il suo pensiero.

È un diario della mia vita durante l’estate del ’71 e c’è dentro di tutto: politica, amore, arte. È un tentativo di raccontare una esistenza in senso globale. Negli Stati Uniti sono stati pubblicati molti libri scritti da femministe, ma per lo più si tratta di analisi, di saggi, di storie del passato… pochi scritti riguardano la nostra nuova esistenza, che cosa vuol dire essere come siamo. Si è gridato allo scandalo quando è uscito Flying, i critici sono stati irritati da una cosa: le scene erotiche, di amore lesbico che secondo loro erano disgustose. E tanto hanno discusso che quando il libro è uscito ha avuto un grosso successo di pubblico. Una delle cose che i critici hanno maggiormente criticato è stato il linguaggio, hanno detto che era scritto senza cura, ma io non ho mai lavorato tanto a un libro, perché sapevo che sarebbe stato attaccato per motivi sociali, ideologici, emotivi, e volevo che almeno la parte artistica fosse quanto più perfetta possibile. Ma è troppo spontaneo, greggio e naturale per i critici.

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L’uomo come nemico

Nella stessa intervista, Kate Millett raccontò di un fatto accaduto da poco e che aveva risvegliato in lei una paura provata tanto tempo prima.

Circa due settimane fa, a Indianapolis, mi stavo avviando a piedi verso il parcheggio dell’università, era circa mezzanotte, quando una macchina ha cominciato a seguirmi; io ho girato dalla parte opposta, ma quello continuava imperterrito; mi sono avviata per una strada a senso unico e me lo sono visto arrivare addosso a tutta velocità dall’altra parte. Non avevo più provato tanta paura da quando ero bambina e — a 13 anni — sono stata assalita da uno sconosciuto che ha tentato di violentarmi. Una volta salita in macchina la paura non è cessata. Quello continuava a seguirmi e io ero terrorizzata.

E quella paura non se ne andava: la seguiva nella sua vita di tutti i giorni, perché nasceva da un sentimento atavico.

Solo allora mi sono resa conto di quanta verità ci sia nello slogan di alcuni gruppi femministi “l’uomo è il nostro nemico”. Fino allora avevo pensato che fosse uno slogan sbagliato e dicevo che non erano gli uomini, ma il sistema… In quel momento invece ho incominciato a realizzare quanta verità c’è in questo slogan per cui in ogni uomo c’è uno stupratore, un nemico potenziale. Siamo veramente alla mercé di chiunque… Perché mai dobbiamo avere questa paura fisica, perché dobbiamo essere così umiliate?

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