Preparò pane e burro e due tazze di latte, scrisse l’ultima  poesia, Orlo, e poi si tolse la vita. Forse nemmeno voleva farlo, in realtà, forse voleva solo attirare disperatamente l’attenzione, capire se al mondo ci fosse qualcuno disposta ad aiutarla, a tirarla fuori dai suoi guai e dai demoni che la corrodevano nell’animo praticamente da tutta una vita.

A 58 anni dalla morte è difficile spiegare se nel suicidio della poetessa Sylvia Plath ci fosse il desiderio di essere rimpianta da un marito troppo amato e finito tra le braccia di un’altra, o i tormenti esistenziali che si portava dietro dalla gioventù; in fondo, già nel 1950, da promettente studentessa dello Smith College, dov’era entrata con una borsa di studio, aveva tentato il suicidio, episodio che racconterà nell’unico romanzo, semi-autobiogafico, scritto sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, La campana di vetro, pubblicato, per un ironico tiro mancino della sorte, proprio nel 1963, anno della morte. Al McLean Hospital, inoltre, le era stato diagnosticato il disturbo bipolare.

Sylvia Plath conosce e ama follemente, disumanamente, il poeta Ted Hughes: i due si sposano nel 1956, in gran segreto, e Sylvia Plath teme di perdere, proprio a causa di quel matrimonio, la borsa di studio Fulbright ottenuta nel 1955 per l’università di Cambridge.

In questo periodo, e in quello successivo, dove la coppia, dopo il ritorno dalla luna di miele in Spagna, vive separata – lei impegnata nel secondo anno a Cambridge, lui nello Yorkshire- la Plath scrive una lettera praticamente ogni giorno al suo “Caro Ted”, o, come amava chiamarlo, “Dearest Teddy-ponk”; la corrispondenza fra i due giovani sposi è stata ritrovata solo moltissimi anni dopo dalla figlia Frieda, e da lei conservata dopo la morte del padre, nel 1998, come riporta il Telegraph in un articolo a proposito.

Mi manchi come l’inferno, non posso sopportare di stare con persone che non sono te.

Scriveva Sylvia Plath al marito; nel tempo la sua divenne quasi una vera e propria dipendenza verso Hughes, una sottomissione totale, e il suo matrimonio, al pari di un’ossessione, l’unica cosa che la tenesse in vita.

Credo onestamente che grazie a una qualche mistica unione siamo diventati una sola carne; Sono solo malata, fisicamente malata, senza di te. Piango; poso la testa sul pavimento; soffoco, odio mangiare; odio dormire, o andare a letto… Vivo in una sorta di morte in vita…

Peccato che l’idillio si interruppe, soprattutto dopo l’aborto non volontario che dovette affrontare Sylvia Plath nel 1961, episodio che è evocato spesso in molte delle poesie del periodo; la perdita del figlio sembrò allontanare i coniugi, fino alla definitiva separazione, avvenuta dopo la nascita del secondogenito. Molti sostengono che la causa del divorzio di Hughes da Sylvia fosse la relazione da lui intrecciata con Assia Wevill, moglie di un amico poeta, ma un’altra verità emerge da alcune lettere, indirizzate da Sylvia Plath al proprio psicoterapeuta, di cui ha parlato il The Guardian.

Ted Hughes avrebbe infatti mostrato un comportamento violento nei confronti della moglie, e il  matrimonio, dagli anni ’60, sarebbe stato caratterizzato da abusi domestici e minacce; anzi, secondo il quotidiano britannico Hughes avrebbe picchiato la moglie proprio due giorni prima dell’interruzione di gravidanza, cosa che, se le cose stessero davvero così, porrebbe ovviamente l’intero episodio sotto un’altra luce.

Le lettere, scritte nel periodo tra il 18 febbraio 1960 e il 4 febbraio 1963, appena una settimana prima del suicidio di Sylvia, erano ignote anche a studiosi e lettori, ma certo sembra piuttosto strano che una scrittrice prolifica come Plath, che aveva iniziato a tenere un diario all’età di 11 anni, non ne abbia conservato memoria negli anni più avanti; a questo proposito, proprio Hughes ha dichiarato, dopo la morte della ex moglie, che l’intero diario sarebbe andato distrutto, confessando di aver distrutto egli stesso l’ultimo volume, per proteggere i figli Nicholas e Frieda.

Ma veniamo alla notte dell’11 febbraio 1963, quella in cui Sylvia Plath si tolse la vita: secondo il sito Dagospia, quella sera Ted Hughes era tra le braccia della sua amante, e si era rifugiato in un altro appartamento perché non voleva ricevere le chiamate della ex moglie; troppo labile la sua mente, troppo instabile il suo cuore, ora sereno e positivo verso il futuro, ora pronto a mandarlo all’inferno e ad augurargli la morte. Ma dove lui fosse davvero in realtà poco importa, perché probabilmente nulla avrebbe salvato Sylvia Plath.

Dopo il suicidio della moglie, Ted Hughes non scrisse più a lungo, per tre anni; rimase in silenzio, rifiutando di parlare di Sylvia Plath, fino a Birthday Letters, scritto nell’anno della sua morte, il 1998, una raccolta che descriveva in versi la loro complicata relazione.

Lei pianse, implorando conferma – che avesse fiducia in lei, e lui vacillò quando invece avrebbe dovuto afferrare.

Questo verso della poesia “The inscription” lascia trasparire i fortissimi sensi di colpa con cui Hughes ha convissuto per gran parte della vita dopo la morte della moglie, accettando anche il peso del giudizio di chi lo voleva in qualche modo responsabile del suo suicidio, senza mai ribattere, senza difendersi.

Quella sera Sylvia Plath mise a letto i bambini, preparò loro la colazione, poi sigillò la stanza con il nastro adesivo, prima di infilare la testa nel forno. Secondo alcuni studiosi, Plath non voleva uccidersi, ma solo cercare un aiuto dall’esterno; quella mattina, infatti, sostengono, sarebbe dovuta passare una ragazza australiana, e la poetessa avrebbe anche lasciato un biglietto con su scritto il numero del suo medico, come se volesse essere salvata. Quali fossero le sue intenzioni, quell’11 febbraio 1963 comunque il mondo perse Sylvia Plath, che però volle regalargli l’ultima perla.

Orlo, la poesia che lei scrisse, dopo aver preparato la colazione per i suoi bambini, prima di morire.

La donna è a perfezione.
Il suo morto

Corpo ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità

scorre lungo i drappeggi della sua toga,
i suoi nudi

piedi sembran dire:
abbiamo tanto camminato, è finita.

Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
come un bianco serpente a una delle due piccole

tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti

Dentro il suo corpo come petali
di una rosa richiusa quando il giardino

s’intorpidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d’osso.

A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.

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