Wislawa Szymborska: quello che ci salva dall'essere dei "poveracci qualunque"

La poesia, insegna Wislawa Szymborska a chi la sta a leggere, non sta nei libri, o almeno non finisce lì dentro: se così fosse sai che misera cosa! L'habitat naturale della poesia è la realtà, anche la peggiore. Eccola, per esempio, nella maniglia su cui anni prima si sono appoggiate le mani di amanti che devono ancora incontrarsi. Ce n'è persino nel frigo, se la vuoi vedere. O nel tuo compagno che dorme sul divano e russa, con la bava che gli esce dall'angolo della bocca. O nei corpi degli uomini e delle donne che si sono gettati dalle Torri Gemelle in fiamme, cui la poetessa fa un grande dono.

La poesia non è qualcosa di astratto, né di diverso dalla normalità.
Pensare alla poesia come ad altro dalla vita reale è qualcosa che in molti di noi hanno interiorizzato sui banchi di scuola: ed ecco che allora la poesia è noiosa e inutile per alcuni; meravigliosa e rifugio nel sogno per altri.

La poesia è un modo di vedere il mondo, di guardare ai grandi temi dell’essere umano (la morte, l’amore, il senso di tutto…), tanto quanto alla cipolla che affettiamo o allo scarabeo morto sul marciapiede.
È questo sguardo che distingue un poeta da chi poeta non è. E Wislawa Szymborska è una delle più grandi poetesse mai esistite, quasi oscena nel suo vedere la poesia in quello che noi pensiamo, a torto, poesia non sia.

Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Sono versi che la poetessa polacca dedica non a una donna, no, ma a La cipolla, nella poesia omonima, in cui chiosa:

In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.

La poesia, insegna la Szymborska a chi la sta a leggere, non sta nei libri, o meglio, non finisce lì dentro: se così fosse sai che misera cosa!

E così questo scarabeo morto sul viottolo
brilla non compianto verso il sole
Basta pensarci per la durata di uno sguardo:
sembra che non gli sia accaduto nulla d’importante

L’importante, pare, riguarda noi
Solo la nostra vita, solo la nostra morte
una morte che gode d’una forzata precedenza

Eccola la poesia, nella vita vera. Nella lucertola suo terrazzo, nel sasso calciato per strada, nella maniglia su cui anni prima si sono appoggiate le mani di amanti che devono ancora incontrarsi.
Ce n’è persino nel frigo, se la vuoi vedere. O nel tuo compagno che dorme sul divano e russa, con la bava che gli esce dall’angolo della bocca.

Wislawa Szymborsa vede e ci fa vedere cose che noi non vediamo. Ha il dono dell’empatia, dell’essere “senza pelle” nel cogliere il sentire di tutte le cose. A sua difesa, solo l’arma affilata e difficile dell’ironia.

In un discorso, pare, la prima frase è sempre la più difficile. E dunque l’ho già alle mie spalle…

Con questo parole Wislawa Szymborska si rivolse agli Accademici di Svezia quando, nel 1996, le fu conferito il Premio Nobel per la Letteratura. La polemica fu immediata, a dire il vero imbarazzante. Mentre Iosif Brodskij definiva la poetessa polacca “con Herbert, una delle più grandi voci poetiche attuali” e la poetessa russa Anna Achmatova la traduceva, gli opinionisti italiani usavano l’aggettivo “sconosciuta” e interpretavano il riconoscimento come un tentativo di rivalutare una letteratura secondo loro “affossata” ( dimenticando peraltro il Premio Nobel del 1980 a Czeslaw Milosz).

Intanto Wislawa Szyborska, per la prima volta in Italia, schiva per natura e irraggiungibile ai giornalisti, iniziava anche in Italia a fare proseliti, stringendo un sodalizio con l’editore milanese Vanni Scheiwiller che, con intuito precorritore, proprio nel 1996 pubblicava una prima raccolta della poetessa polacca, “Gente sul ponte”, seguita nel 1997 da “La fine e l’inizio” e nel 2002 da “Taccuino d’amore”. Nel mezzo si colloca la scelta antologica edita da Adelphi nel 1998, “Vista con un granello di sabbia”.

Quindi, nel successivo Ogni evenienza, si leggevano questi versi:

Sono saltati giù dai piani in fiamme
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.

Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro
descrivere quel volo
senza aggiungere l’ultima frase.

È il dramma delle Torri Gemelle, fermato dalla Szymborska in una poesia tanto più terribile quanto più “quasi leggera”, in perfetto stile Szymborska. È la potenza di un finale in cui detona, potente, l’umanità e la pietas nell’orrore:

Solo due cose posso fare per loro
descrivere quel volo
senza aggiungere l’ultima frase.

Nata a Kornic nel 1923, Wislawa Szymborska vive a Cracovia dal 1931. Nella figura minuta, piena di rughe ma dagli occhi scintillati con cui è comparsa in Italia, in età già avanzata (è morta a 88 anni nel 2012), ci sono i segni ma anche la freschezza di chi la vita l’ha vissuta e si è ostinato a farlo, a tutti i costi, fino alla fine.

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A tutti i costi, come la vita che si impone nelle sue poesie:

I cuori battono nelle uova
Crescono gli scheletri dei neonati (…)
Chi ne afferma l’onnipotenza (della morte, ndr)
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è
Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo
(da “Sulla morte, senza esagerare”)

L’abitudine alla chiarezza cui la Szymborsza ci ha abituati torna nella raccolta Uno spasso, in un linguaggio scarno, così lucido da sembrare impietoso, come in Decapitazione:

Décolleté deriva da decollo,
decollo significa taglio il collo.
La regina Stuarda
salì al patibolo con una camicia adatta.
La camicia era scollata
e rossa come un’emorragia.

Uno sguardo che non smette di essere raziocinante e implacabile neppure quando parla di amore e le uniche parole che la poetessa riesce a rivolgere al suo uomo in Nulla due volte sono immense, ma soprattutto mortali:

Ci sei. Perciò devi passare.
Passerai. E in ciò sta la bellezza.

Ruvida e dignitosa nel lessico; chirurgica anche in quella precisione ironica che molti hanno sottolineato con la sua cifra più significativa. Nella lirica Uno spasso, parlando del genere umano tocca picchi di una ferocia inaudita:

Gli è venuta voglia di felicità,
gli è venuta voglia di verità,
gli è venuta voglia di eternità.
Ma guardatelo…
è quasi una nullità,
ma in testa non ha che onniscienza, essere e libertà,
al di là di una carne stolta.

Ma se è vero che come spesso accade negli spiriti particolarmente percettivi, la ferocia della Szymborska è figlia di un eccesso di intelligenza e, quindi, di consapevolezza e dolore, è anche vero che essa non si pietrifica in freddezza e in rifiuto del mondo. Ma diventa pietà e, addirittura, ammirazione:

Eppure sembra esistere,
è accaduto davvero…
Ed è accanito
accanito, va ammesso, e tanto.
Con quell’anello al naso, la toga, il maglione.
Uno spasso, comunque.
Un poveraccio, qualunque.
Proprio un uomo.

Consapevole della caducità del bello e di ogni cosa umana, perennemente alla ricerca di una felicità che non sembra essere contemplata nel “contratto iniziale”, alla Szymborska non resta che il sorriso con cui in una poesia ringrazia chi non ama per “il sollievo con cui accetto/ che siano più vicini a un altro…”.

Non resta che ridere e amare questo mondo indicibile e indifeso, senza schiamazzi e compromessi. E se c’è qualcuno cui chiedere scusa è alla poesia, per quel paio di parole prese a prestito su cui si fatica “per farle sembrare leggere”.

Non resta che vivere e cercare la poesia nel suo stesso habitat naturale: la realtà, anche la peggiore.
Perché la poesia non deve resistere a nessuna normalità: ne ha bisogno, senza esserne sporcata.
È l’assunto per cui siamo esseri umani e non solo “poveracci qualunque”.

Di seguito alcune raccolte e testi della poetessa:

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