Ci sono vite che più di altre sembrano essere state scritte per il palcoscenico. Lo è l’intera esistenza di Lillian Hellman, grandissima drammaturga americana del Novecento, oggi ingiustamente poco ricordata. Enfant prodige del teatro a neanche trent’anni, non si limitò a scrivere testi perfetti per essere messi in scena, ma li fece diventare anche uno strumento di denuncia sociale. Non aveva paura di dire quello che pensava, e soprattutto non temeva i tanti nemici accumulati per strada.

Non posso e non voglio tagliare la mia coscienza perché si adatti alla moda di quest’anno.

Nata il 20 giugno del 1905 a New Orleans, Lillian si trovò subito catapultata in un clima familiare perfetto come sfondo per una pièce teatrale. Suo padre Max faticava a trovare la sua strada come produttore di scarpe, mentre la madre Julia apparteneva a un’agiata famiglia. In perenne difficoltà economiche, la coppia iniziò la vita coniugale nella casa delle due sorelle di lui, donne dotate di grande caparbietà e personalità. Contrariamente al padre e alle zie, che avevano dovuto educarsi da sole e sviluppare un’intelligenza schietta e vivace, agli occhi di Lillian Hellman sua madre risultava troppo docile e senza nerbo.

Come racconta la biografia di William Wright, purtroppo non tradotta in italiano, Lillian raccontò diversi episodi enigmatici riguardanti i suoi genitori. Tra questi, in un articolo per una rivista rammentò una scena a cui aveva assistito da bambina, mentre tutti insieme attendevano il treno in stazione. Vedendo due ragazzotti bianchi tentare di violentare una ragazza nera, suo padre si lanciò contro di loro, trascinando in carrozza la giovane e Lillian. Si guardò poi intorno, in cerca della moglie, e la vide sul luogo del misfatto, intenta a sistemare i vestiti nella valigia aperta della ragazza. Lei gli sorrise, come se niente fosse, e terminò seraficamente quello che stava facendo.

Non sorprende che, in molte delle pièce scritte da Lillian Hellman, sia ricorrente il tema del potere catastrofico di alcuni gesti apparentemente amorevoli. Pur riconoscendo come l’atteggiamento di sua madre fosse sempre stato gentile e buono, non poteva nemmeno negare quanto avesse causato problemi alla famiglia. Tuttavia, un altro elemento chiave per capire meglio la sua opera è anche la sua attitudine alla bugia, come da lei stessa ammesso nell’autobiografia Maybe, la quarta e ultima.

Nei tre libri autobiografici che ho scritto, mi sono sforzata di arrivare alla verità. Mi sono sforzata, ma adesso non so gran che di quello che sia veramente accaduto e non ho mai provato a chiarirlo. In aggiunta agli inganni soliti in cui ciascuno di noi cade nella propria vita, è il tempo stesso che rende il tempo indistinto e mescola verità a mezze verità. Ma non mi pare di riuscire a dire le cose come stavano. Sto pagando lo scotto, ritengo, di una fede infantile negli assoluti, forse di un rifiuto altrettanto infantile di quegli stessi assoluti.

Quando si parla di Lillian Hellman, infatti, è difficile scindere la verità dalla menzogna. Certo è, però, che dopo gli studi universitari a New York e un matrimonio sui generis con un commediografo, sentì il desiderio di andare in Europa per riscoprire le origini tedesche del padre, figlio di due immigrati ebrei. Quando capì che il “populismo” di alcuni amici tedeschi si stava impregnando di antisemitismo, ritornò subito negli Stati Uniti.

In quel momento, per la mia volta, pensai al fatto di essere ebrea.

Mentre il clima di tragedia montava nel vecchio continente, negli Anni Trenta, Lillian iniziò a lavorare a Hollywood come lettrice per la Metro-Goldwyn-Mayer. Pur trattandosi di un lavoro pagato poco e noioso, le permise di entrare in contatto con persone creative e soprattutto con il grande amore della sua vita, lo scrittore Dashiell Hammett, per cui lasciò il marito: lei aveva 24 anni, lui 36. Tra alti e bassi, continuarono a stare insieme fino alla morte di lui, nel 1961.

Poi, a soli 29 anni, la vita di Lillian Hellman cambiò drasticamente: il suo dramma The Children’s Hour debuttò a Broadway il 24 novembre del 1934 e fu subito un successo clamoroso. Il tema non era certo dei più semplici da approcciare, ovvero l’omosessualità femminile, presentata attraverso la storia di due insegnanti “accusate” di essere lesbiche da una studentessa rancorosa.

Tornata a Hollywood, Lilllian iniziò a collaborare come sceneggiatrice per la Goldwyn Pictures, coltivando diverse amicizie famose. Il suo circolo, che comprendeva scrittori come Ernest Hemingway e John Dos Passos, si occupò attivamente di lottare contro il nazifascismo imperante. Ciò le provocò non pochi problemi: pur essendo stata premiata con il Pulitzer nel 1939 per la sua opera The Little Foxes, venne perseguitata dal governo statunitense per le sue posizioni di sinistra e inserita nella lista nera degli artisti comunisti.

Nell’impossibilità di lavorare, perché pubblicamente osteggiata, fino alla fine degli Anni Cinquanta non ebbe vita facile. Dopo aver rifiutato di adattare Il Diario di Anna Frank, “perché ne sarebbe uscito un lavoro troppo deprimente”, nel 1960 ritrovò il successo con Toys in the attic, per cui ricevette una nomination ai Tony Awards. Dopo trent’anni da drammaturga, la sua popolarità cominciò a declinare e Hellman si dedicò ai quattro volumi autobiografici: An Unfinished Woman, Pentimento, Scoundrel Time e Maybe. Volutamente non attendibili, perché mischiavano ricordi veri e fantasia, i libri furono un successo di critica e di pubblico.

Una delle cose più strane dei bevitori accaniti, me compresa a quei tempi, è che molto di quello che sembra chiaro mentre si beve non lo è affatto da sobri, poiché in realtà non lo è mai stato.

Lillian Hellman morì a 79 anni, nel 1984, lasciandoci nel dubbio. In fondo, però, ci interessa davvero sapere cosa sia accaduto?

È ovvio che nelle loro memorie le persone cerchino di dire la verità così come esse la vedono se no che senso avrebbe? Forse il tempo offusca o cambia le cose ai loro occhi. Però uno ci prova, comunque.

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