“Non penso a morire, penso a vivere”, addio e grazie, Joan Didion
Si è spenta a 87 anni la scrittrice e giornalista Joan Didion, esponente del New Journalism, donna emancipata e libera.
Si è spenta a 87 anni la scrittrice e giornalista Joan Didion, esponente del New Journalism, donna emancipata e libera.
Addio a Joan Didion; la scrittrice e giornalista statunitense, esponente tra le più importanti del New Journalism, è morta a 87 anni il 23 dicembre, nella sua casa di Manhattan, a causa delle complicazioni legate alla malattia di Parkinson da cui era affetta da tempo. A riportare la notizia della sua scomparsa la sua casa editrice, la Knopf.
Una vita, quella di Didion, costellata da molti successi ma anche da un grande dolore, quello per la perdita della figlia Quintana, che le aveva insegnato a guardare il mondo con occhi diversi, secondo una prospettiva quasi distaccata. Lei, la scrittrice che non pensava a morire, ma a vivere, parafrasando una sua celebre frase, lascia un vuoto enorme nella cultura mondiale.
La sua carriera da giornalista, scrittrice, saggista, è andata quasi di pari passo con gli eventi drammatici della sua vita. Prima la perdita del marito, poi dell’unica figlia, eppure Joan Didion ancora oggi, a 86 anni, conserva una forza di carattere e una fermezza di spirito invidiabili. Attenzione, non significa che le tragedie della sua vita non l’abbiano scalfita, ma che la sua tempra e la natura, da figlia di un membro delle United States Army Air Forces durante la Seconda Guerra Mondiale, con tanti, troppi traslochi sulle spalle da una città all’altra, per seguire il padre, l’hanno sicuramente aiutata nell’obbligarsi a guardare avanti.
Raccogliere in poche righe una carriera lunga quasi mezzo secolo, cominciata ufficialmente nel 1963 con Run, river run e proseguita fino ad oggi, è impresa impossibile. Ci ha provato il documentario biografico The center will not hold, girato proprio dal nipote di Joan, Griffin Dunne, figlio del produttore e sceneggiatore Dominick Dunne, fratello di John Gregory, il grande amore di Didion.
Uscito su Netflix il 27 ottobre 2017, il documentario è il frutto di anni di lavoro, di ricerca, di scambi tra Griffin e la zia, una testimonianza vivida lunga più di cinquant’anni che raccoglie le foto e i racconti dell’infanzia a Sacramento, dove alla fine si trasferì con la madre, al primo lavoro a Vogue, ottenuto dopo aver vinto un concorso di saggistica indetto proprio dal magazine alla Berkely, spaziando tra la vita con John Gregory, sposato nel 1964, e gli anni californiani tra ville in prestito sul mare, party con Janis Joplin, droghe pesanti e Vietnam.
Joan Didion finì spesso nel mirino dei detrattori per il suo lavoro, perché sembrava spesso che anteponesse la notizia all’umanità; un caso eclatante fu quello della risposta “It was gold!” data a chi le chiedeva cosa avesse provato vedendo, in un reportage girato in una comune nell’America degli anni ’70, un bambino di appena cinque anni sotto effetto di acidi, aneddoto da lei raccontato e sulla cui veridicità più d’uno disse di nutrire dei dubbi.
La verità era che, per Joan, la sola cosa che contava del giornalismo, cui non ha mai sentito di appartenere fino in fondo, erano le impressioni; non i fatti, né le opinioni.
Non si può girare intorno al fatto che mettere delle parole su carta è la tattica di un bullo segreto, un’imposizione della sensibilità dello scrittore sullo spazio più privato del lettore.
Scrisse nel saggio Why I write. Considerando la scrittura come un artificio, Didion la riteneva di conseguenza un modo per interpretare la realtà.
L’arrangiamento delle parole conta, e l’arrangiamento che vuoi puoi trovarlo nell’immagine nella tua mente. […] L’immagine ti dice come arrangiare le parole e l’arrangiamento delle parole ti dice, o mi dice, cosa sta succedendo nell’immagine. Nota bene: è lei a dirtelo, non sei tu.
Fu anche il suo personaggio “pubblico” e mondano a dare fastidio a qualcuno: amica di Jim Morrison, testimonial per Céline – per cui ha posato nuovamente, nella campagna estiva del 2015, a 81 anni -, Didion che aveva uno stile iconico e icona di quello stile è diventata, che guidava una Corvette facendosi beffe dei tempi che, invece, volevano una donna relegata tutt’al più al ruolo di casalinga silenziosa e compiacente. Una rivoluzione, insomma.
Nonostante questo aspetto, però, Joan Didion affrontò grandissimi drammi nella sua vita, fra cui la morte dell’amatissima figlia Quintana.
Joan parla senza vittimismi dei due grandi eventi che hanno stravolto i suoi anni più recenti: prima la morte per infarto del suo John, a cui era rimasta legata, come fossero un’anima sola, per quarant’anni, poi quella di Quintana, la figlia adottiva. Quest’ultima era in stato comatoso mentre il padre moriva, per via dello shock settico causatole da una polmonite. Per questa ragione, Joan ritardò di ben tre mesi il funerale del marito, per far sì che la figlia potesse assistervi.
Ma proprio dopo questo evento, Quintana soffrì di un grave ematoma, che la costrinse a subire una lunga operazione chirurgica, da cui si riprese, prima di essere uccisa dalla pancreatite acuta il 26 Agosto 2005, all’età di 39 anni. Joan Didion raccontò l’esperienza della morte della figlia nel libro del 2011, Blue Nights.
Mentre nell’ottobre del 2018 è uscito Da dove vengo, la sua autobiografia, in cui ripercorre a ritroso la sua storia familiare, come un vero e proprio albero genealogico.
Ancora oggi Didion parla del suo percorso da madre, dell’angoscia persistente del suo ruolo di genitore, della paura che l’ha accompagnata in ogni giorno dall’arrivo di Quintana, pensieri e sensazioni riassunte tutte in una frase rilasciata durante un’intervista per Vanity Fair.
Dall’attimo in cui hai un figlio, non smetti mai di avere paura.
Joan articola quel pensiero, motiva le ragioni di un malessere che certamente non le ha tolto il piacere di essere madre, ma ha senza dubbio stravolto il suo ordine di importanza delle cose, il suo vivere e percepire le situazioni alla luce di una nuova responsabilità data, appunto, dalla maternità: “Quando abitavamo a Hollywood, avevamo un’altalena nel cortile – ricorda – Ogni volta che Quintana la spingeva in alto, sfiorava una siepe di edera, e io avevo il terrore che un serpente potesse sbucare fuori e morderla. Avevo paura che mia figlia bevesse candeggina, o qualcosa di velenoso. E che il mostro dei suoi incubi, quello che lei chiamava ‘Uomo rovinato’, potesse esistere davvero. Una follia, lo so“.
Irrazionale eppure perfettamente presente, del resto la paura ha di per sé queste caratteristiche, essere irragionevole ma immanente in noi. Eppure, come molte madri, anche Joan non si salva dai sensi di colpa, per essere stata fin troppo presente nella vita di sua figlia. Sorprendente, ma vero. “Non le ho dato abbastanza libertà, non le ho dato abbastanza credito, e non l’ho lasciata abbastanza da sola. Mi sono sempre assunta il compito di prendere le decisioni. Ma lei era in grado di farlo per conto suo“.
Allo stesso tempo, si rimprovera, paradossalmente, di aver fornito a Quintana un esempio di eccessiva simbiosi con il marito, di essersi mostrata troppo vicina a lui, al punto da aver ragione di credere che lei potesse sentirsi estranea al loro microcosmo.
Credo che ci percepisse come una sorta di ‘circolo chiuso’ – confida Joan – Facevamo tutto insieme, e per lei, che era in un certo senso l’intrusa, era difficile trovare uno spazio proprio. Ma eravamo così, e non potevamo essere diversi.
Un grande amore, lo abbiamo detto, quello fra John e Joan, iniziato con l’incontro ai tempi di Vogue, quando lui lavorava per il Time, e proseguito per tutta la vita. Nessuno scandalo, nessun credito per i gossip, una coppia cui solo la morte ha posto una fine. A lui, all’uomo a cui si era dedicata tutta la vita, Joan ha pensato mentre scriveva L’anno del pensiero magico (vincitore del National Book Award per la saggistica nel 2005), descrivendo con delicata verità quei momenti di totale alienazione dalla realtà seguiti alla sua morte.
Straordinariamente razionale nel dolore – non cinica, razionale – Joan oggi osserva lucidamente la sua vita come se la guardasse dall’esterno, analizza il periodo in cui a Quintana vennero diagnosticati la depressione e il disturbo borderline della personalità, liberandosi dall’ennesima colpa auto-inflitta dicendo che no, non avrebbe potuto fare più di quanto abbia fatto per lei. Nostalgica, ma senza falsi tentativi di suscitare pietà, Joan conserva ancora, nel suo appartamento sull’Upper East Side, scatoloni interi di oggetti e ricordi appartenuti alla figlia, con un interrogativo ben preciso a loro legato: “… Dovrei chiedermi che fine farà questa roba quando sarò morta. Non ci riesco. Non penso a morire, penso a vivere“.
Già, “Perché nessuno vuole morire. Non riesco a immaginare che mi accadrà“, confessa Joan, che però allo stesso tempo ammette che la sua vera paura è proprio l’opposto, non morire.
Ammalarmi, o avere un incidente e non essere più in grado di fare quello che voglio, è la mia più grande paura. Non penso alla morte, penso a quello che succederebbe se non morissi.
È incredibile la naturalezza con cui riesca a vivere – e sopravvivere – a tutto, incredibile la sua flemmatica considerazione sul tempo e sulla morte, la logica sferzante ma allo stesso impagabile con cui alza le spalle e se ne infischia, dell’una e dell’altra, prendendole solo come una frazione del tutto. In fondo, non ci si può aspettare niente di diverso da chi dice di non aver “attuato alcun tipo di adattamento alla vecchiaia“.
Fino a che John è stato vivo, mi sono sempre vista attraverso i suoi occhi. E quello che lui vedeva era la stessa giovane donna che aveva sposato.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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