Il senso delle donne per il potere - INTERVISTA ad Alice Siracusano

In occasione dell'uscita del suo ultimo libro, Il senso del potere, abbiamo intervistato Alice Siracusano sul potere femminile, i pregiudizi che affrontano ancora le donne a vari livelli della società e i concetti di leadership gentile e leadership femminile.

“Il potere logora chi non ce l’ha”, è forse l’aforisma più celebre quando si parla di potere. A dirla, e non c’è da sorprendersi, un uomo (Giulio Andreotti).

Perché la storia, la società, la cultura, ci hanno da sempre insegnato questo: che il potere è ad appanaggio esclusivo degli uomini, che sono gli uomini a dover guidare, condurre, gli unici con requisiti e competenze adatte ad assumere ruoli di leadership. Gli unici che possono lottare fra loro per il potere, battaglia da cui le donne, ça va sans dire, sono escluse.

Ecco, Il senso del potere, il libro pubblicato da Alice Siracusano per FiordiRisorse, non solo vuole sovvertire questa linea di pensiero, ma intende entrare più nel profondo in quelle che sono le dinamiche di potere a tutti i livelli immaginabili, da quello pubblico fino a quello più intimo e personale, il potere su se stessə, analizzando concetti e filosofie diventati grandi mantra della nostra società. Partendo proprio dal concetto di leader e di leadership, sviscerato nella prefazione del giornalista Osvaldo Danzi alla linguista Vera Gheno.

Tutto parte, e qui ci fermiamo per evitare troppi spoiler, dalla terapia di coppia della protagonista, Siracusano appunto, con il marito; le sedute diventano l’occasione per analizzare cosa significhi “avere potere”, perché sia un concetto tanto importante nella nostra cultura e in che modo spesso esso si confonda con il rispondere alle aspettative e agli standard che altri ci impongono. Tutti temi che abbiamo affrontato anche noi nell’intervista all’autrice, che, dopo un passato nelle agenzie pubblicitarie (ha curato, tra gli altri, il lancio di YouTube in Italia per Google), nel 2015 ha rilanciato l’agenzia fotogiornalistica LUZ, insieme a Roberto Minetto, rendendola un’agenzia di comunicazione e B Corp, di cui è socia.

Il suo primo saggio, Nati per cambiare, è diventato progetto di formazione per aiutare le aziende a evolvere.

Prima di tutto, non dovrei fartelo notare, ma sei una donna che scrive di potere… Non è facile trovare un esempio del genere.

Nessuno mi aveva mai fatto riflettere sul fatto che io sia una donna che ha scritto di potere, sembra una cosa banale ma non lo è, tanto che io ho dovuto cercare esempi di scrittrici che hanno scritto a proposito di potere; le ho trovate, ma soprattutto negli Stati Uniti. Quello che succede spesso è che ci sono esempi di cose scritte da donne sul potere, ma da donne che non rivestono posizioni di potere, persone che non lo vivono in prima persona”.

In un capitolo del libro citi Bertrand de Jouvenel, filosofo, politico ed economista francese, che, ne La teoria pura della politica, descrisse il potere come “un rapporto di causazione sociale tra una persona (o un gruppo) e un’altra (o un altro gruppo)” aggiungendo che “Non vi è potere se alle risorse e alle abilità del primo attore non corrisponde l’attitudine del secondo a lasciarsi influenzare”. Nel caso dei rapporti tra sessi, storicamente, però, la distribuzione del potere sembra essere andata diversamente. Le donne, più che l’attitudine a lasciarsi influenzare, non hanno avuto a lungo la possibilità di dire la loro, non trovi?

Bertrand era un uomo, quindi anche la sua teorizzazione è stata fatta partendo da un bias che è la prospettiva maschile. Lo dico, in un passaggio del libro, che le donne non hanno mai avuto la possibilità, per tantissimo tempo e in alcuni Paesi ancora oggi, di riflettere a proposito del potere e di scegliere se essere influenzate o meno, non hanno potuto porsi questa scelta, erano soggiogate, punto. Non a caso lo spunto per scrivere il libro mi è venuto leggendo un altro libro, di Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, in cui parla dell’esigenza di ripartire indagando cosa noi donne desideriamo, proprio perché in tutte le sfere sociali non abbiamo avuto l’occasione di riflettere su cosa noi desideriamo, non su cosa gli altri si aspettano da noi, e in questo bisogna tenere in considerazione che mota della scrittura e della teoria del potere è stata prodotta da uomini”.

Quanto è frequente confondere il concetto di potere con quello di controllo, errore che nel libro ammetti di aver fatto a lungo anche tu?

“Ti parlo dal mio osservatorio, una donna che vive in una città come Milano, con tante relazioni, per lavoro e private, ma soprattutto ti parlo dalla prospettiva di una imprenditrice che gestisce una realtà con diverse persone, di cui la maggior parte donne. È frequentissima questa associazione tra potere e controllo, e non ti nascondo che è uno dei bias che mi piacerebbe far scricchiolare col mio libro. Io ho deciso che il potere per me era controllo in un momento preciso della mia vita che ho ricostruito dopo, durante la terapia. Mi sono resa conto che il momento in cui ho cominciato ad associare il potere al controllo è stato quando, a 18 anni circa, ho iniziato ad avere problemi di anoressia, che a sua volta veniva da un problema precedente. Cercando di ricostruire la fonte siamo arrivati all’associazione che io, a un certo punto della mia vita, ho fatto tra il dimostrare che ho controllo e l’ottenere l’amore dei miei genitori. Secondo me, dalla mia prospettiva, se dimostravo di avere controllo i miei genitori mi avrebbero voluto bene.

Io sono riuscita con la terapia a risalire alla causa; quello che vorrei far notare è che, una volta capito il processo, ci si rende anche conto di quanto sia deleterio voler orientare tutto il nostro sforzo per controllare qualcosa che è al di fuori di noi. Con l’analisi mi sono però resa conto che in qualche modo potere è controllo, ma non delle aspettative degli altri; è la consapevolezza di ciò che ha valore per noi. Se noi riusciamo ad avere consapevolezza di questo, di ciò che ha valore per noi e non per gli altri, quello è potere. Il punto è che ciò che ha valore per noi è diverso probabilmente da quello che avrà valore fra cinque anni, quindi l’altra difficoltà è riuscire a rimanere in ascolto di noi stessi e capire come possiamo riuscire a raggiungere ciò che conta per noi, pur restando in relazione con gli altri.

Quello che vedo fuori da me è che anche le generazioni giovani hanno spesso l’ossessione per il controllo delle aspettative. Pensano che gli altri si aspettino delle cose da loro e a tutti i costi vogliono sottostare a quelle aspettative, e questo è un aspetto che vedo di frequente sia negli uomini che nelle donne”.

Se dovessi fermarti a ragionare per un attimo, quanto davvero ritieni il potere diviso tra i sessi, oggi? Non trovi che sia ancora più che altro una divisione per compartimenti stagni, o per settori? E perché è ancora così facile confondere il concetto di leadership gentile con quello di leadership femminile?

Qui purtroppo entra in gioco una materia che abito quotidianamente da anni, ovvero il marketing: una della cose che fa è categorizzare dei fenomeni, delle tipologie di persone, quindi una delle parole ricorrenti, come dici tu, è leadership gentile, e in generale viene data un’etichetta al modo di essere leader, argomento, peraltro, affrontato molto bene da Vera Gheno nella prefazione del libro. Come lei dice, etichettare le cose può essere utile perché il nostro cervello ragiona per schemi, ma se l’etichetta è creata da una maggioranza per definire una minoranza, non è una cosa positiva. Se ci pensi un po’ succede anche nel caso della leadership gentile: io non mi sono mai definita leader gentile, sono quasi sicura che chi ha coniato questo termine non sia un manager né una CEO, probabilmente fa marketing. David Bevilacqua, manager e imprenditore nel campo dell’AI, che ho intervistato nel primo capitolo del mio libro, ha detto che ‘la leaderhisp gentile è il caso limite. Da leader non possiamo essere sempre gentili, non saremmo autentici’. Il punto è che, fermo restando che per me l’etichetta di leadership gentile non ha senso, trovo pericoloso prenderla per oro colato proprio perché, come tutte le cose date da un’aspettativa esterna, nel tentativo di aderirvi per forza perdiamo la nostra autenticità. Io punto a essere sempre gentile, in generale, nella vita, ma ricordiamo anche che la gentilezza può avere significati diversi per le persone, quindi spesso è associata anche a compiacere, far buon viso a cattivo gioco, cosa che un manager, sul lavoro, non può assolutamente fare.

È vero poi che la leadership gentile è associata a leadership femminile, legata al concetto che, siccome siamo donne, allora siamo più gentili, più morbide. È sempre qualcosa di legato al fatto che, essendo dotate di utero, dobbiamo essere materne”.

Citando autori e artisti autorevoli, come Lou Andreas-Salomé, definisci il potere degli uomini come “dato dall’esterno”, proprio perché culturalmente il potere viene associato all’autorità, che a lungo è stata esercitata solo dagli uomini. Il potere delle donne, invece, da dove viene? Come e dove devono agire per esercitare il potere, e soprattutto di quale tipo di potere stiamo parlando? È esclusivamente il potere di poter decidere “per sé”, oppure di avere effettivamente ruoli di comando e di organizzazione a livello politico, lavorativo? Quale piano è più importante o meglio, deve essere raggiunto per primo?

La risposta, secondo me, è che si dovrebbe partire da una autenticità individuale, che è molto difficile da raggiungere, perché oggi il potere, sia agli uomini che alle donne, viene dato dalle aspettative sociali sul ruolo di uomo e sul ruolo di donna che, ancora oggi, ci sono intorno a noi, anche se noi siamo in Italia, Paese occidentale e laico. Non possiamo prescindere da queste aspettative, il nostro essere non può prescindere dalla socialità, motivo per cui ci plasmiamo in funzione della società in cui viviamo, che ci condiziona.

Lo dobbiamo per forza tenere in considerazione, insieme al fatto che l’aspettativa verso il genere maschile è svilupparsi e produrre attraverso il lavoro, quella sul genere femminile  è svilupparsi attraverso il generare figli. Consapevoli di ciò secondo me la chiave è nel promuovere appunto l’autenticità. Io, per esempio, ho scritto in Nati per cambiare, il mio primo libro, a proposito dell’approccio pedagogico che si chiama Reggio Emilia approach, una filosofia educativa che si basa sull’autonomia espressiva di bambini e bambine. Sin da quando entrano al nido, o all’asilo, a questi bimbi viene suggerito di sviluppare autonomamente la propria capacità espressiva, quindi devono essere gli insegnanti a fare un enorme lavoro, perché proprio loro hanno il potere e la responsabilità di far sì che ciò accada.

Motivo per cui devono sforzarsi di non impartire delle lezioni o giudicare, ma fare un passo indietro e osservarli mentre loro interagiscono con elementi di diverso tipo. In questo modo i bambini tendono a mostrare le proprie inclinazioni e ambizioni. Ovviamente è un percorso che deve essere poi proseguito nel corso del tempo, negli altri livelli scolastici. In questo modo, possiamo riuscire a rifuggire le aspettative dall’esterno, pur essendone consapevoli, perché a prevalere è il desiderio individuale.

Ovvio che è un discorso che vale per le giovani generazioni, su quelle più adulte è difficile attecchire. Un aspetto fondamentale, su cui tutti dobbiamo lavorare, all’apparenza banale, ma in realtà difficilissimo, è imparare a dire ‘no’: magari partendo da quei contesti più piccoli, semplici, per poi allargare le nostre prospettive”.

Hai partecipato anche al podcast Grembo, di Anna Acquistapace, dichiarando la tua scelta di non volere figli. A proposito di autorità, potere decisionale e giudizio, quanto mansplaining ti sei sentita fare per questa scelta e quanto giudizio hai percepito per il tuo potere – perché di questo si tratta – di decidere per te stessa?

“Credo che il podcast sia stato davvero liberatorio per me, quando l’ho inciso ero già arrivata alla piena consapevolezza di non volere figli, ma l’ascolto di altre persone ha cambiato il mio rapporto con loro e liberato tutta una serie di aspettative che prima c’erano, anche se non ne avevamo mai parlato ad alta voce, cosa che per un po’ mi ha condizionato. Mi ha condizionato molto il pensiero degli altri, in primis della mia famiglia, ma anche di persone fuori da me. Persino chi mi è più vicino, solo dopo aver ascoltato quella puntata, ha cominciato a dialogare con me in modo diverso, accettando, almeno secondo la mia percezione, il fatto che non voglio figli.

Io ho avuto anche il problema opposto, ci sono stati momenti della mia vita in cui io stessa pensavo non fosse accettabile non volere figli, quindi ricollegavo questo non desiderio a delle scuse: mio marito non vuole figli, sono una donna che ama molto l’intraprendenza nel lavoro e non posso avere vincoli o orari, quindi non posso avere figli. E sono solo due della ragioni fuori da me con cui giustificavo a me stessa in primis di non volere figli”.

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