“Io sosto / pensandomi ferma stasera / in riva alla vita / come un cespo di giunchi / che tremi / presso un’acqua in cammino”. Leggendo le ultime parole della sua poesia In riva alla vita, è impossibile non pensare al triste epilogo della vita di Antonia Pozzi. Poetessa sensibile e illuminata, che se ne andò presto: consumata da quella “troppa vita” che le scorreva nel sangue, scelse di togliersi la vita a soli 26 anni. Forse, più della sua morte, oggi si dovrebbe continuare a parlare della sua voce limpida e dello splendore dei suoi versi, ingiustamente poco conosciuti. Ma chi era Antonia?

Nata nel 1912, la sua biografia ufficiale la presenta come una bambina bionda e fragile, figlia dell’avvocato Roberto Pozzi e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani. Cresciuta in una vasta tenuta terriera a Bereguardo (vicino a Pavia), Antonia Pozzi beneficiò di in un ambiente colto e raffinato, anche se severo. Dopo un’infanzia ricca di stimoli culturali, studiò al Liceo Classico Manzoni di Milano. Fu durante l’adolescenza che si avvicinò alla poesia.

La sua prima esperienza forte e dolorosa risale proprio al primo anno di liceo, nel 1927. Antonia era affascinata dal suo professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi, uomo di grande cultura e intelligenza. Ben presto, l’ammirazione di Antonia si trasformò in amore, che venne peraltro corrisposto dal Cervi. La loro storia fu però ostacolata dal padre: nel 1933, la Pozzi scrisse nel suo diario di aver dovuto rinunciare “non secondo il cuore, ma secondo il bene”.

Il tormento per quell’amore mai vissuto pienamente continuò ad angustiarla anche durante l’università. Iscritta a Lettere e Filosofia nel 1930, si laureò con lode cinque anni dopo. Il periodo passato alla Statale di Milano fu colmo di nuove amicizie e apparentemente “normale”: la sua vita era quella di una ragazza privilegiata, borghese, colta e curiosa, appassionata di montagna e fotografia. Dentro, però, Antonia continuava a consumarsi d’amore per il suo professore del liceo.

Iniziò a lavorare come insegnante, mentre i suo taccuini diventavano sempre più ricchi di poesie e scatti fotografici. Ma una sera di dicembre del 1938, a soli 26 anni, Antonia Pozzi decise che la sua vita non era abbastanza. Si recò nel prato antistante l’abbazia di Chiaravalle, appena fuori Milano, e si suicidò con una dose letale di barbiturici. Lasciò un biglietto di addio ai genitori, poi distrutto dal padre, in cui parlava di “disperazione mortale”.

Il 15 settembre 1937, un anno prima del suicidio, aveva scritto all’amica Elvira Gandini: “Perché e così… prima si sbaglia, ci si perde, ci si arrampica per astratte impalcature intellettuali, finché la vita un bel giorno comincia, coi suoi gesti leggeri e sapienti, a richiamarci a lei… è come aprire gli occhi ad un tratto e ritrovarsi su una striscia di prato al sole, vicino alle pietre e alle piante. Il senso della vita non è più sparso, nel cervello, nelle mani, negli occhi, ma è tutto raccolto nel centro del petto, come un enorme fiore o come una corazza: e il domani non è più che portare sempre più in avanti quel fiore, sereni, eretti, per una grande strada bianca”.

Oltre al diario e alle lettere, di lei ci resta soprattutto il suo canzoniere, intitolato Parole. Una raccolta di poesie che non parlano solo di morte, ma che ci permettono di scoprire il viaggio di un’anima bellissima, anche se tormentata. Non ricordiamola per il suo suicidio, quindi, ma per i suoi versi, che meriterebbero molta più attenzione. Come il finale della poesia Voce di donna: “Sono la scarna siepe del tuo orto / che sta muta a fiorire / sotto convogli di zingare stelle”.

La vita di Antonia Pozzi è stata raccontata nel documentario Poesia che mi guardi di Marina Spada, presentato fuori concorso alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia, nel 2009. E, curiosamente, viene anche citata nel film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, in concorso agli Oscar 2018: il protagonista Elio regala proprio un libro di poesie della Pozzi a un’amica.

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