Molto spesso ci poniamo una domanda la cui risposta può sembrare scontata: il razzismo esiste ancora?

A primo acchito ci verrebbe forse naturale rispondere che il razzismo, almeno dalle nostre parti, ormai è acqua passata, che parlare di razze sia superato (oltre che errato concettualmente), che tutti siamo uguali e tante altre belle frasi che però, nella realtà dei fatti, non rispecchiano esattamente come stanno le cose.

Non serve andare lontano, nell’America del Black Lives Matter, per rendersi conto che alcuni strascichi razzisti persistono tenacemente anche in quei ranghi sociali giudicati “insospettabili” perché culturalmente e intellettualmente elevati, magari, o nei discorsi da bar in cui si fa riferimento al “diverso”, alla persona “di colore”, all’immigrato o al clandestino.

La fotografa, scrittrice e regista Marilena Delli Umuhoza, italo-ruandese, che si definisce “Nata, cresciuta, educata ed insultata in Italia”, ha provato a fotografare e descrivere il ritratto di un Paese chiuso ancora nelle sue preclusioni mentali in Negretta. Baci razzisti, pubblicato nel luglio del 2020 da RedStar Press, storia semi-autobiografica in cui racconta cosa significa essere una ragazza nera che cresce in un paesino padano dove i cliché la fanno da padrone.

Negretta. Baci razzisti

Negretta. Baci razzisti

La storia semi-autobiografica di Marilena Delli Umuhoza, che ripercorre la sua adolescenza da italo-ruandese in un paesino padano soffocato da un razzismo nemmeno troppo latente.
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Sullo scooter, superai a gran velocità la statua del Duce del vicino, il rondò con la bandiera padana e i graffiti ‘Affondate i barconi’ sui muri della questura.

Si legge nel libro.

Allora proviamo ad approfondire i temi del razzismo, che l’hanno toccata in prima persona ma anche quelli generali, proprio con lei, partendo da quel romanzo, e dal bagaglio di esperienza personale di cui è frutto, almeno in parte.

“Negretta -Baci Razzisti è un romanzo che si ispira molto alla storia della mia famiglia – ci racconta Marilena – La protagonista, come me, si chiama Marilena: è nata in Italia e cresce nella città di suo padre, Bergamo, una delle roccaforti leghiste per eccellenza. ‘Negretta’ è l’appellativo con cui viene chiamata da compagni di classe, insegnanti, impiegati comunali, forze dell’ordine e perfino dai muri della sua città che, con le loro scritte ‘Immigrati fuori’ e ‘Affondate i barconi’ fuori dalla questura, le ricordano costantemente che lei e la sua famiglia sono
indesiderate“.

La mamma della Marilena protagonista del libro viene dal Rwanda, si chiama Chantal, ed è sopravvissuta a tre genocidi; è stata rapita a cinque anni dai coloni belgi che su di lei e i bambini del suo villaggio hanno testato il vaccino della poliomielite, che lei ha finito per contrarre. Passa dal razzismo del suo paese per finire discriminata in quello di suo marito, che diverrà anche il suo, l’Italia. Uno degli episodi più significativi del libro – non spoileriamo! – è quello che descrive il modo in cui viene cacciata dalle urne elettorali, nel nuovo comune di Bergamo dove si era appena trasferita.

Prima di allora aveva votato senza problemi: lei era cittadina italiana e aveva un regolare documento d’identità. Solo una era la sua colpa: essere ‘negra’, usando le parole dell’impiegato comunale. Lei, che aveva subito in silenzio il razzismo dei suoi concittadini (percosse, insulti, minacce) non era però disposta a tollerare che la Costituzione italiana, in cui lei credeva fermamente, non fosse rispettata. Così trascinò il comune in tribunale e vinse la causa.

La storia di Chantal è molto simile a quella di Myriam, madre vera di Marilena, che spende per lei parole meravigliose:

Per me, lei è il modello nero positivo che ho cercato per tutta la vita: i mass media italiani, così come il cinema, la letteratura e l’arte in generale, tendevano a ridicolizzare e sminuire la figura dell’uomo nero (si pensi che i neri erano sempre i primi a morire nei film, neri erano i personaggi cattivi delle favole che leggevo, nero era il gatto porta-sfortuna ecc.).
Anche il padre della storia, Giuseppe, è molto simile al mio in quanto ex missionario bergamasco, leghista fino al midollo. Un uomo che per amore lasciò il talare pagando un prezzo altissimo: l’emarginazione da parte della sua famiglia e del mondo del lavoro.

E Marilena, invece?

La protagonista, come me, è la sintesi di queste due personalità e lotta alla ricerca della propria identità, spezzata tra una madre che cerca a suo modo di integrarla, forzandola a sbiancare la pelle e lisciare i capelli; e un padre che detesta gli immigrati nonostante ne abbia sposata una. Solo con la sua migliore amica Marilena si sentirà libera di essere se stessa, un’adolescente come tante altre. E infatti ‘Negretta’ è un romanzo young adult incentrato principalmente sulla storia di un’amicizia che nasce tra i banchi di scuola, tra i cori razzisti dei compagni che chiamano una ‘Caffè’ perché troppo scura, l’altra ‘Latte’ perché troppo chiara. Ma le due amiche si approprieranno di quegli appellativi, rendendoli il loro orgoglioso nome di battaglia“.

Hai detto addirittura che tua figlia viene ancora chiamata negretta. A questo punto pensi che il razzismo dipenda più da un fattore culturale, di ignoranza e scarsa informazione, o che sia un dato di fatto incontrovertibile?

Quando mio padre, negli anni ’80, andò a registrare il mio secondo nome rwandese, Umuhoza (consolatrice in kinyarwanda), gli impiegati lo presero in giro considerando la cosa del tutto ridicola. Quindi non fu mai registrato. Trent’anni dopo, quando andai a registrare il secondo nome rwandese di mia figlia, Umutoni (la favorita), l’impiegata si rifiutò categoricamente dicendo: ‘Ma non può chiamarla Maria?’. Anche stavolta, il suo nome rwandese, non fu registrato.

La scelta di un titolo così forte, ‘Negretta’, è dettata dalla mia esperienza personale: ero ‘negretta’ per le infermiere appena nata, per i compagni di classe e gli insegnanti a scuola, per i passanti e i vicini, gli impiegati e i datori di lavoro. Mia figlia è ancora molto piccola, ma le è stato dato della ‘negretta’ quando non aveva neanche un giorno di vita. Poco sembra essere cambiato in questo paese, tre decadi dopo.

Per cambiare le cose bisogna partire dalle istituzioni, perché è il razzismo istituzionale quello che più fa paura. In questo momento è ancora in vigore il Decreto Salvini, che, fra le tante ingiustizie, contempla l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi di protezione umanitaria, oltre alla revoca del diritto d’asilo per reati minori come furto o minaccia a pubblico ufficiale, che comportano l’espulsione dal paese. Si parla di revisionare tale decreto a ottobre.

Ma non si rivedrà uno dei punti più bui del decreto: i tempi di attesa dall’inoltro della domanda di cittadinanza, che da due anni sono aumentati a quattro.
Questo vuol dire che uomini e donne nati in Italia, cresciuti in Italia, educati in Italia, non avranno diritto a votare prima di ben quattro anni dalla domanda di cittadinanza. Il che richiama all’altra forma di razzismo istituzionale in Italia, l’attuale legge sulla cittadinanza, che guarda all’Italia come a un paese di emigrazione e non di immigrazione. E che dice a quasi un milione di studenti di origine straniera che non potranno essere parte integrante del paese perché i loro genitori sono stranieri. Nessuno pensa a come debbano sentirsi questi ragazzi?

Non è il primo libro a tema razzismo, per Marilena. Il precedente, Razzismo all’italiana-cronache di una spia mezzosangue, era un memoir.

Ma tu quanto razzismo hai sperimentato nella tua vita, sulla tua pelle?

Il razzismo ha radici antiche nella mia famiglia: parte dai coloni belgi che si insediarono in Rwanda, il paese di mia madre, fomentando odio tra tribù che avevano convissuto per secoli pacificamente. Furono loro, tra le altre cose, a introdurre una carta d’identità che distinguesse le due tribù, Hutu e Tutsi, sulla base di criteri fisiognomici puramente soggettivi. A causa del razzismo del suo paese, mia madre perse l’intera famiglia, oltre all’uso della gamba per via degli esperimenti medici dei belgi sui bambini rwandesi come lei.

Ma da piccola mia madre non condivideva mai con me la sua esperienza, sono io che ho dovuto scavare piano piano, riuscendo ad abbattere il suo muro di silenzio solo da adulta. Ho raccolto tutto ciò in un documentario, ‘Rwanda Mama’, selezionato al Festival del Cinema in Sudafrica nel 2009.

Il razzismo che ho vissuto in prima persona l’ho raccontato in quel memoir. Non è stato facile parlarne, ma alla fine ho trovato il coraggio di farlo.
Parlo di coraggio perché all’epoca era una rarità reperire un testo che testimoniasse esperienze dirette del razzismo subito dalle seconde generazioni di italiani come me.
Sentivo che c’era un grande vuoto letterario in Italia, un grande problema di rappresentazione che non faceva che aumentare il senso di isolamento e emarginazione degli italiani di origine straniera. Anche per questo ho scritto ‘Negretta’, uno dei rari romanzi con protagonista una donna nera italiana.

Il razzismo l’ho sperimentato per la prima volta a scuola, dove i compagni mi chiamavano ‘negretta’ e non Marilena, escludendomi dai giochi, evitandomi schifati e riservandomi spietati cori razzisti sullo scuolabus. Un incubo. Anche nel mondo del lavoro, come mia madre, ho avuto non poche difficoltà. Ho subito molestie di ogni genere, che più e più volte mi hanno costretta a dovermi licenziare. Si dava per scontato che, per via del colore della mia pelle, fossi una ragazza facile.

Uno degli episodi più recenti di razzismo, riguarda un fatto della mia quotidianità: ero andata a fare la spesa con mia sorella, e dal momento in cui avevamo messo piede nel supermercato (molto grande) a quello in cui avevamo raggiunto le casse per pagare, eravamo state pedinate dalla guardia che non aveva smesso di fissare ogni nostro movimento con occhi minacciosi. Il razzismo purtroppo è un’ombra che mi segue e si ripresenta quando meno me l’aspetto. Mia madre, come la Chantal del mio romanzo, soleva dirmi ‘Mari, loro ci guarderanno sempre come esseri inferiori. Per questo devi rimboccarti le maniche dieci volte di più’.

Una donna severa ed esigente, che però mi ha spinta a fare del mio meglio e a non lasciarmi abbattere dalle avversità. Oggi, oltre a scrivere, sono fotografa e regista. Negli ultimi dodici anni ho lavorato a oltre trenta album di musicisti di strada dai paesi meno rappresentati del mondo, a partire dal Rwanda, terra di mia madre”.

Marilena oggi collabora con il marito, produttore americano, e alcuni dei suoi progetti sono visibili sul suo sito.

Abbiamo provato in questo articolo a spiegare perché negro sia offensivo e di colore da colonialisti. Vuoi provare a spiegarlo tu?

Io penso che il concetto di razza, sia in sé assurdo: l’umanità condivide lo stesso patrimonio genetico, sicché parlare di razze vorrebbe dire parlare di tante categorie quante sono le singole persone.
Ogni individuo dovrebbe essere chiamato col proprio nome (quello intero e non censurato dall’impiegato comunale), senza riferimenti a una razza o a un colore. La parola ‘negro’, poi, trabocca di un bagaglio storico troppo importante per essere usato con leggerezza.
Un bagaglio che risale ai tempi della schiavitù, durante uno dei genocidi più devastanti della storia, dove milioni di vite africane furono uccise, depredate, strappate dalla propria terra, e costrette a emigrare con la forza in un altro continente. Spogliate di tutti i diritti, stuprate della propria dignità, umiliate per generazioni e generazioni“.

A proposito di genocidi, tu hai origini rwandesi, un paese che per mesi ha vissuto una sanguinosa guerra civile. Com’è la situazione adesso? Che strascichi ha lasciato su di te, sulla tua famiglia, sui tuoi cari?

“Il Rwanda è oggi uno dei paesi più fiorenti del continente africano. Ha avuto una straordinaria rinascita dopo il genocidio del 1994, in cui si ritrovò abbandonata dal resto del mondo, Nazioni Unite incluse. Cento giorni di solitudine per oltre un milione di morti. La situazione si presenta oggi migliore, anche se, al di fuori della capitale, permangono ancora i problemi legati alla povertà. La famiglia di mia madre è stata segnata da moltissimi lutti. Sono morti tutti e in modi atroci. Solo lei riuscì miracolosamente a sopravvivere. Oggi conservo l’unica foto della mia famiglia rwandese all’ingresso di casa:

Erano tagliati a mezzo busto e decentrati. Il cielo sovrastante occupava la maggior parte della foto, come a suggerire il luogo dove presto si sarebbero diretti

usando le parole del capitolo ‘La sangue blu senza terra’ nel mio romanzo ‘Negretta’“.

Quanto della guerra in Rwanda è stato davvero detto dai media occidentali? C’è stata la stessa percezione della Siria, “mi dispiace ma in fondo sono lontani da noi”?

“Ai mass media italiani il genocidio di un piccolo paese dell’Africa, grande quanto la Lombardia, non interessava. Nel 1994 non ne sentii parlare né alla radio né al telegiornale.
Lo scoprii per caso, a scuola. L’insegnante di educazione fisica ci mostrò un filmato in palestra: immagini di teste mozzate, uomini col machete, cataste di cadaveri. La musica di Enya in sottofondo, per aggiungere quel tocco di dramma in più a quelle immagini più che eloquenti. ‘Delli, ma non è il tuo paese questo? Il Rwanda? Che ne pensi?’.

Inutile che commenti la più totale assenza di tatto da parte della mia insegnante, che tra le altre cose mi chiedeva informazioni su un paese che non era il mio, ma di mia madre. Sconvolta, avevo raccontato il fatto a mia mamma, che per la prima volta mi parlò del genocidio in corso nel suo paese. Lei lo aveva appreso dagli amici che sentiva regolarmente per telefono. Si trattava del terzo genocidio, l’unico coperto (seppur con ritardo) dai mass media di tutto il mondo. I due precedenti si erano consumati nel 1959 e nel 1973, ma questo non è mai importato a nessuno“.

Veniamo a un capitolo doloroso, la morte di Willy Monteiro Duarte: c’è una frase, riportata nel suo articolo da Federica Angeli, “era solo un immigrato”. Sia essa precisa o meno, molti sui social l’hanno avallata. Non importa neppure che Willy non fosse un immigrato ma un cittadino italiano, questo fa capire che c’è davvero un problema atavico di matrice razziale che gli italiani non riusciranno mai a superare?

Willy Monteiro Duarte è una vittima del razzismo in Italia. La frase simbolo della sua morte ‘era solo un immigrato’ fa eco all’odio che una parte del nostro paese nutre verso l’immigrato, in questo caso un ragazzo italiano, romano, con genitori originari di Capo Verde. Willy Monteiro, era tutto tranne che un immigrato. Un termine spesso usato con connotazione dispregiativa per includere tutte le persone con la pelle nera, indistintamente dal luogo di nascita.

La terminologia razzista è l’arma di cui si servono i partiti di estrema destra  per disumanizzare un gruppo indistinto di persone accomunate dalla pelle scura, e escluderle a priori dal resto della società, negando loro accesso a risorse, diritti e poteri. Finché ci saranno leggi come il decreto Salvini e l’attuale legge sulla cittadinanza, molti italiani si sentiranno giustificati a comportarsi in maniera disumana verso uomini e donne di origine straniera“.

Perché nonostante i 7 anni di lotte del Black Lives Matter i neri americani continuano a essere massacrati e i loro assassini, molto spesso, a restare impuniti?

Purtroppo il problema del razzismo negli Stati Uniti ha una lunga storia e la polizia, che ogni anno miete circa 1.200 vittime, si accanisce con la comunità nera che rappresenta il 24% di tali vittime. Ma la comunità afro-americana compone solo il 13% sul totale della popolazione statunitense. Eppure, ha quasi tre volte più possibilità di essere uccisa rispetto a chiunque altro. Per risolvere il problema bisogna andare alla radice, che è l’iniqua distribuzione di risorse, diritti e poteri”.

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