È il 3 luglio del 2009, un tranquillo venerdì di riposo in Sudan. La giovane giornalista Lubna Ahmed al-Hussein esce dalla casa della sua famiglia e si dirige in un ristorante alla moda di Al-Ryadh, un elegante quartiere di Khartoum. Ha promesso alla cugina, in procinto di sposarsi, di prendersi carico personalmente della prenotazione del suo banchetto di nozze.

Mentre si guarda intorno nell’Oum Kalthoum, incuriosita dalla folla di clienti e dalla musica che accompagna l’esibizione di alcuni ballerini, improvvisamente tutto si ferma. Cala il silenzio e tra le persone si fanno largo diversi poliziotti. Lubna teme che ci siano dei ladri o dei criminali in azione, ma gli agenti si separano e iniziano a far alzare diverse donne. Alla fine arrivano anche da lei: inizia così il suo incubo, raccontato nel libro Quaranta frustate.

La mia non è una storia personale. Non sono stata arrestata, processata e condannata perché sono una giornalista, né perché in Sudan la mia penna mi abbia procurato un po’ di notorietà. Nulla di tutto questo: la mia è la storia di uno scandalo.

Quaranta frustate. La mia ribellione alla legge degli uomini

Quaranta frustate. La mia ribellione alla legge degli uomini

La testimonianza inedita di Lubna Ahmad Al-Hussein, la pasionaria sudanese che ha rischiato 40 frustate per aver indossato i pantaloni e ha scelto di lottare per i diritti delle donne.
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La sua colpa? Indossare i pantaloni.

La mia storia non è la mia storia. È la storia delle quindici donne che sono state arrestate insieme a me, in quel ristorante di Khartoum. Molte di loro sono state frustate quel giorno stesso. La mia storia è quella delle centinaia, migliaia di donne che vengono frustate ogni giorno, ogni mese, ogni anno dopo un processo sommario nei nostri sinistri tribunali dell’ordine e della morale pubblica. Donne che subiscono la pena in silenzio, che si asciugano il sangue colato dalle loro schiene, dalle braccia e si allontanano a testa bassa, con la fronte coperta di rossore. Se ne vanno condannate a morte, alla morte sociale, marchiate da una vergogna che le accompagnerà fino alla fine dei loro giorni. Perché la gente non vuole credere che una donna possa essere frustata soltanto a causa dei suoi vestiti.

Nel cuore della notte, Lubna Ahmed al-Hussein viene portata in commissariato insieme alle altre donne. Una scena normale in tutto il Sudan, che si ripete dagli anni Novanta, da quando le autorità nazionali si occupano di far rispettare l’articolo 152 del codice penale del 1991 riguardante l’oltraggio alla morale pubblica. Ecco cosa dice l’articolo:

Chiunque, in un luogo pubblico, commette un atto osceno o contrario alla morale pubblica, o indossa un abbigliamento indecente o contrario alla morale pubblica, o che urta la sensibilità pubblica, sarà punito con una pena che non potrà superare i quaranta colpi di frusta, o con un’ammenda, o con entrambe le sanzioni. Un atto è contrario alla morale pubblica se è considerato tale in virtù della fede religiosa della persona, o dei costumi del paese in cui l’atto viene compiuto.

La legge viene applicata non solo ai musulmani, oltre la metà della popolazione, ma anche ad animisti e cristiani. Non è chiaro cosa si intenda per “indecente” e ciò lascia grande libertà alle forze dell’ordine. “La definizione è soggettiva, ciascuno ha la propria”, racconta poi la scrittrice nel suo libro. “Un hijab che lascia scoperto il collo? Una gonna che lascia intravedere la parte alta delle caviglie? E dove comincia la parte alta delle caviglie? Un paio di pantaloni?”.

Dieci donne si dichiarano subito colpevoli e sono sottoposte a dieci frustate e al pagamento di una multa di 250 sterline sudanesi. Lubna Ahmed al-Hussein chiede un avvocato e decide di andare a processo: prima dell’udienza, invia alcune e-mail e inviti cartacei annunciando che“La giornalista sudanese Lubna ti invita di nuovo alla sua frustata domani”.

Possono anche darmi 40.000 frustate, ma non starò zitta.

Quando arriva il momento, il tribunale si riempie di attivisti per i diritti delle donne, politici, diplomatici e giornalisti, nonché sostenitori. Lubna, impiegata all’ONU, annuncia di voler rinunciare al suo lavoro, che le avrebbero fornito l’immunità, per combattere il caso. Due mesi dopo, a settembre, la condannano a un’ammenda, ma non alle frustate: in realtà è una vittoria, perché finalmente tutto il mondo sa cosa sta succedendo.

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