"Quando un marito poteva far rinchiudere in manicomio la moglie per punizione"
Un libro che parla "di umanità, di coraggio, e di libertà" e del prezzo che le donne hanno pagato e continuano a pagare.
Un libro che parla "di umanità, di coraggio, e di libertà" e del prezzo che le donne hanno pagato e continuano a pagare.
Un diario che unisce le vite di due donne, lontane di sessant’anni ma vicine più di quanto si possa pensare.
Da un lato c’è Rebecca, la trentenne di oggi che fa finta di non pensare al matrimonio e ai figli ma più per assecondare le volontà del compagno che per reale convinzione; dall’altra parte c’è Elvira, ragazza nell’immediato dopoguerra, vittima del più crudele degli inganni e con una vita interrotta, troppo presto, dietro il muro di un manicomio, rinchiusa lì dall’uomo che avrebbe dovuto amarla e proteggerla, il marito.
Ci sono tante sfumature diverse di umanità, ma anche di femminilità, ne La Fabbrica delle nuvole, libro che la nostra collaboratrice, Natascia Alibani, ha scritto e pubblicato per L’Erudita, casa editrice indipendente che fa capo alla Giulio Perrone.
Il romanzo, uscito il 19 dicembre 2018, ci dà lo spunto per parlare con Natascia, per metterla, per una volta, dall’altra parte, quella di chi le interviste le “subisce” e non le fa. Sorprendentemente, tanto ama scrivere, tanto poco ama parlare: ma quando pubblichi un libro poi tocca fare anche.
Però qualcosa di questo romanzo che è nato nel 2014, poi messo in stand by per finire la tesi di laurea (“A fare due cose insieme vengono male tutte e due”, ci spiega), e ripreso un anno e mezzo più tardi, lo vogliamo sapere. Da dove nasce l’idea, ad esempio.
Sembrerà strano, ma lo spunto per costruire la storia mi è stato dato da un fatto realmente accaduto nella famiglia di mio padre anni fa. Una moglie chiusa per davvero in un istituto di cura dal marito, e mai più uscita.
Del resto, la storia ci insegna che un tempo, nemmeno troppo lontano, le donne in quegli istituti ci finivano davvero per le ragioni più disparate, che non sempre coincidevano con la pazzia vera e propria.
Talvolta, anzi, bastava volersi distinguere dalla massa che voleva tutte le donne angeli del focolare, mogli e madri fedeli, per meritare la punizione. Ed Elvira, pur con i suoi vent’anni, e il suo carattere che solo a tratti può sembrare remissivo, è senza dubbio una figura che grida ribellione e autodeterminazione.
Ma se la storia di questa donna trae spunto da un passato familiare, il suo personaggio è ispirato a quest’ava o è ispirato a qualcun altro?
Non a qualcuno di specifico. Punto di partenza a parte, c’è qualcosa delle persone che conosco, e che mi sono vicine, in molti dei personaggi, ma è comunque tutto frutto della fantasia. Non ci sono spunti autobiografici, anzi la sfida, per me, è stata proprio mettermi nei panni di qualcuno che, mentalmente, è estremamente diverso dal mio modo di essere.
Di chi parli?
Dell’altra protagonista, Rebecca. La donna del XXI secolo che asseconda la volontà del suo uomo pur nutrendo tutt’altre aspettative per la propria vita. Quella che sogna il matrimonio e i figli, ma che accantona i desideri in nome di quello che lei considera amore. Per me è stato complicato ragionare come una donna che sogna il matrimonio tutti i giorni, ma non perché ci sia qualcosa di male in questo… Solo che io sono un altro tipo di persona.
Due protagoniste donne, lontane nel tempo, ma con storie che fanno capire che non sempre l’emancipazione di se stesse dipende dal contesto storico in cui ci si trova.
Esatto. La cosa interessante è che, fra Rebecca ed Elvira, va a finire che proprio quest’ultima è la più forte, la più ribelle, quella pronta a mettere tutto in discussione e a rischiare per inseguire quell’amore che disperatamente difenderà per tutta la vita, fino alla chiusura in manicomio [e che naturalmente non è quello per il marito, ndr.].
Mentre Rebecca è una che le cose ‘se le fa andare bene’, ha troppa paura di perdere tutto ciò che ha per riflettere davvero su cosa voglia dalla vita. Ma che le sue certezze sono labili lo si capisce già da quando incontrerà quel primo, vecchio amore che, seppur platonico, non ha mai permesso al suo cuore di rimettersi davvero in sesto.
Dobbiamo aspettarci un romanzo d’amore?
No l’amore è ‘il pretesto’, la scusa per raccontare la storia di due donne. Per interpretarne le fragilità, ma anche i grandi momenti di forza. I dubbi, le paure, e la capacità di uscirne da sole. E poi il libro parla ahimè di violenza sulle donne, quella che oggi viviamo nella cronaca di tutti i giorni e che un tempo, cinquanta o sessant’anni fa, era taciuta, nascosta da istituzioni come il matrimonio riparatore. E in fin dei conti parla anche di rivalsa personale, che non significa necessariamente ‘avere il lieto fine’, ma solo non permettere a chi ci fa del male di trionfare.
Quindi niente lieto fine?
C’è una fine… Che può essere interpretata liberamente da chi legge. Ci sono state anche persone che mi hanno detto di averlo visto come un lieto fine. Ma il bello sta proprio qui: sono contenta se chi legge ciò che scrivo si sente libero di interpretarne il senso, se si appropria moralmente del contenuto per adeguarselo.
Cosa vorresti che il tuo libro suscitasse nelle persone?
Posso dirlo? Vorrei che si incazzassero. Questa donna [Elvira] ne subisce talmente tante da un marito che è un orco, e da una suocera che è il vero capo clan, che io stessa mi arrabbiavo mentre scrivevo, giuro! Quindi vorrei che spingesse le persone a pensare ‘Ma guarda che gran figlio di…’. Significherebbe che sono riuscita a coinvolgerle, a trasmettere esattamente il senso e i sentimenti a cui pensavo mentre scrivevo.
Ci sono tanti temi sociali, nel tuo libro: il sessismo, ad esempio, il maschilismo, la famiglia patriarcale, lo stupro legalizzato dall’istituzione del matrimonio riparatore… Quindi La Fabbrica delle nuvole, se dovessi riassumerlo, di cosa parla?
Di libertà. E di quanto sia importante inseguire davvero solo ciò che si vuole, costi quel che costi. Potrà sembrare un messaggio banale, ma in fondo, se rinunciamo a perseguire quello che desideriamo per compiacere qualcuno, sia esso il fidanzato, o la società, possiamo davvero considerarci liberi? La fabbrica delle nuvole, alla fine, è esattamente questo: è il luogo in cui nascono i sogni, perché, mentre nel fumo che esce dai comignoli qualcuno vede solo il risultato di qualcosa che brucia, altri ci vedono nuvole che nascono. E il bello è proprio questo: che ciascuno possa crearsi la sua realtà, e credervi fortemente, anche se la maggioranza vorrebbe fargli pensare il contrario.
Da quando sono diventata mamma sono convinta che le donne abbiano i super poteri.
Cosa ne pensi?