Come è possibile spostare l’opinione di un popolo da una posizione all’altra? E come si convince la gente dell’importanza di cambiare qualcosa di profondamente sbagliato nella società? Non sono domande semplici a cui rispondere, in qualsiasi periodo storico, ma è comunque possibile raccontare le storie di chi è riuscito a farlo, come Harriet Beecher Stowe.

Con il suo libro La capanna dello zio Tom raccontò la spietata e complice indifferenza di un paese che accettava la schiavitù e contribuì ad aprire gli occhi a molte persone, più di quante avesse mai potuto immaginare.

Come raccontato in un articolo del New Yorker, tra il 1861 e il 1865 gli americani iniziarono a lottare tra di loro, facendo precipitare la nazione nella guerra civile. E tutto perché qualcuno era riuscito a persuaderli della necessità di cambiare le cose. Intorno al 1830, i sudisti avevano tentato di proporre la loro visione della schiavitù, intesa come una volontà di Dio.

Gli abolizionisti del Nord, invece, sostenevano che la Bibbia dicesse l’esatto contrario. In questo contesto, Harriet Beecher Stowe scrisse il suo capolavoro, considerato uno degli strumenti di persuasione più efficaci della storia americana. La scrittrice, fervente religiosa, sosteneva che la storia le fosse apparsa come una visione inviata da Dio. Sicuramente, però, la sua famiglia favorì la sua crescita come autrice, stimolando il suo talento.

Nata il 14 giugno 1811 a Litchfield, in Connecticut, era la settima dei nove figli di Lyman e Roxana Beecher. Rimasta orfana di madre a soli quattro anni, Harriet fu allevata dai fratelli maggiori e dal padre, un pastore congregazionista. Intelligente e studiosa, fin da piccola si appassionò ai classici, senza dimenticare le lingue e la matematica.

Lyman Beecher si accorse subito di quanto Harriet fosse speciale e temeva che le sue capacità andassero sprecate perché era nata femmina. Ma non andò così: affamata di libri e di conoscenza, riuscì a ricevere la stessa educazione dei maschi. Dopo essersi trasferita a Cincinnati con la famiglia, a 21 anni, cominciò a frequentare un salone letterario e a scrivere articoli per alcuni giornali locali.

Nel 1836 sposò Calvin Ellis Stowe, vedovo e insegnante di letteratura biblica nel seminario fondato e diretto da suo padre. Forse fu il suo desiderio di indipendenza a spingerla verso il matrimonio, come si evince da una lettera inviata da Harriet Beecher Stowe a un’amica poco prima del sì. Oppure si trattava della volontà di non gravare più economicamente sul padre.

Dapprima provai un’apprensione indicibile, e la settimana scorsa non sono mai riuscita a chiudere occhio; non sapevo come avrei subìto questa enorme trasformazione della mia vita. Ora che il momento è giunto, non provo più nulla.

La coppia ebbe sette figli e, per contribuire al bilancio familiare e all’esiguo contributo economico del marito, Harriet iniziò a scrivere racconti. In seguito alla morte di suo figlio Charley nel 1849, durante un’epidemia di colera, qualcosa dentro di lei cambiò. Mitizzò la figura di Gesù, considerandolo come il simbolo degli ultimi, ed esplorò il tema in diversi scritti, tra cui anche La capanna dello zio Tom.

Il protagonista della storia, lo schiavo Tom vessato dal suo padrone, iniziò a delinearsi nella sua mente proprio perché la perdita del bambino le aveva fatto comprendere “cosa potesse provare una povera schiava quando qualcuno le strappava dalle braccia un figlio”.

L’empatia verso gli schiavi non era certo una novità, nella sua famiglia: già suo padre, anni prima, aveva contribuito a far fuggire una donna di colore dalla piantagione in cui era stata comprata come schiava. Incoraggiata dagli atti di fiducia dei suoi cari, che credevano nelle sue doti di scrittrice, scrisse quindi il suo romanzo, che uscì a puntate tra il 1851 e il 1852 sulle pagine di una rivista abolizionista.

Quando venne anche pubblicato come opera integrale, le prime diecimila copie andarono subito a ruba. Mentre le edizioni si moltiplicavano, il volume venne tradotto anche all’estero, in oltre venti lingue. Il nome di Harriet Beecher Stowe era sulla bocca di tutti, non solo in America.

Il romanzo fu una delle scintille che portarono alla guerra civile tra Nord e Sud, divisi sul tema della schiavitù: qualcosa era mutato, nella coscienza delle persone, ed era stata anche lei l’artefice di questo cambiamento. Come era potuto succedere? La leggenda vuole che, incontrandola, persino il presidente Abramo Lincoln abbia detto “Allora è lei la piccola donna che ha causato una grande guerra”.

Harriet Beecher Stowe continuò a scrivere, ma i libri successivi non ebbero più lo stesso successo della sua prima opera. Dopo la fine della guerra civile, Harriet si trasferì in Florida in una grande tenuta, dedicandosi alle lettere dei suoi lettori e alle cause che le stavano a cuore.

Non si occupò solo degli schiavi liberati, in cerca di una nuova vita, ma anche dei diritti delle donne e degli animali. Morì il 1 luglio 1896 a 85 anni, molto probabilmente per via dell’Alzheimer, e i luoghi in cui visse durante la sua vita sono diventati musei visitati ogni anno da migliaia di persone. Oggi più che mai è chiaro il messaggio che voleva dare con il suo romanzo più celebre: tutti dobbiamo scegliere da che parte stare per definire il paese in cui viviamo.

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