Nei ruggenti anni ’20, subito prima della Grande Depressione, l’America si divideva tra il fox trot e il Proibizionismo, tra le prime avvisaglie di quella che sarebbe stata la terribile crisi del ’29 e il desiderio della gente di divertirsi, di rinchiudersi nei tabarin e di tornare alla vita spensierata dopo la fine della Prima Guerra Mondiale.

Nelle contraddizioni della società americana di quel tempo, divisa equamente fra il lusso sfrenato di imprenditori e agenti di borsa e il popolo che arrancava faticosamente per tornare a standard di vita accettabili, la penna pungente di F.S. Fitzgerald raccontò più verosimilmente le mille sfaccettature di quel meltin pot culturale; ma, in un’epoca in cui le donne faticavano per emergere e affermarsi, Dorothy Parker può a pieno titolo essere considerata il suo contraltare femminile.

Il grande Gatsby

Definita “la donna più spiritosa di New York”, Dorothy è stata senza dubbio l’osservatrice più attenta, arguta e dissacrante dei suoi contemporanei, la commentatrice più attendibile e cinicamente veritiera del suo tempo, abbastanza graffiante da elogiare di pari modo vizi e virtù di quel mondo in cui lei stessa era immersa.

 

La sua vita stessa aveva tutte le caratteristiche della trama di un buon romanzo: nata Rothschild da famiglia ebraica, orfana di madre appena bambina, uno zio morto nell’affondamento del Titanic nel 1912, Dorothy fu notata nel ’20 da Vanity Fair che poi la “dirottò” su un’altra testata dello stesso gruppo editoriale, Vogue. Sposata dal 1917 con Edwin Pond Parker II, che poi venne inviato subito al fronte a combattere la Grande Guerra, la poetessa divenne amica di un gruppo di intellettuali del calibro di  Robert Benchley e Robert E. Sherwood, assieme ai quali fondò la cosiddetta Tavolta Rotonda dell’Algonquin, l’albergo  tra la Quinta e la Sesta strada di Manhattan, famoso per essere il ritrovo di artisti vari, scrittori, intellettuali e giornalisti, in cui erano soliti riunirsi per pranzare.

Licenziata da Vanity Fair, fu una delle prime freelance, e subito dopo divenne la più spietata narratrice della società contemporanea, ma anche di se stessa. Dopo essere stata assunta al neo fondato New Yorker, nel 1925, aperto da Harold Ross, Dorothy divenne famosa per i suoi poemetti ferocemente umoristici, alcuni  giocati sull’autoironia e sulla sistematica messa in ridicolo dei suoi (spesso fallimentari) affari di cuore, altri che sembravano elogiare il suicidio, cosa che, peraltro, nel corso della sua vita tentò non meno di tre volte. Come questa, forse la sua poesia più famosa, Resumé.

 I rasoi fanno male; i fiumi sono freddi;
l’acido macchia; i farmaci danno i crampi.
Le pistole sono illegali; i cappi cedono;
il gas fa schifo. Tanto vale vivere…

Il suo lavoro più famoso, Una bella bionda, del 1929, non venne mai considerato da Dot con la stessa importanza con cui lo guardavano critici ed esperti del mondo intellettuale, nonostante fosse suo al 100%, intriso di quel sarcasmo vagamente malinconico che esprimeva in pieno la sua personalità difficile, sfumata, intelligente.

Ci fu anche il cinema nella carriera di Dorothy Parker, tanto che, assieme al secondo marito, lo sceneggiatore Alan Campbell, ricevette una nomination all’Oscar per È nata una stella, nel 1937.

Comunista in piena epoca maccartista, Dot non nascose mai le sue simpatie politiche, finendo irrimediabilmente sulla black list degli USA, messa sotto inchiesta da parte dell’FBI per sospetta attività anti americana. Nel suo testamento, aperto dopo la morte avvenuta nel 1967 per un arresto cardiaco, Dorothy aveva scritto di voler lasciare tutto alla fondazione Martin Luther King, di cui sosteneva le idee e la battaglia.

Tanto vale vivere, la sua raccolta di racconti più famosa, dà un’immagine chiara e nitida dell’anima della Parker, nostalgica e sarcastica allo stesso tempo, contraddittoria solo come può essere quella di chi porta con sé un demone, che nel suo caso era l’alcolismo.

Tanto vale vivere. Tutti i racconti e le poesie

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Nei suoi scritti abbondano donne che inseguono l’amore, deluse, tradite, divorziate, oppure ambiziose, gelose, scaltre, vacue, di fronte a un telefono che non squilla mai, descritte attraverso tic, manie, strategie, inseguitrici di sogni, drink, ma anche amanti di  vestiti, unghie, gioielli. Donne che, insomma, non sembrano neppure tanto diverse da quelle di oggi.

Eppure non c’è mai un finale tragico nelle sue storie,  le protagoniste dei suoi racconti si liberano sempre del male di vivere con un’alzata di spalle, o versandosi  un altro drink. Probabilmente proprio perché, nei suoi mille alter ego raccontati attraverso la penna, Dorothy riversava tutta se stessa, e la sua convinzione che, dato che morire è così doloroso, forse, alla fine, valga più la pena vivere.

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