“Ogni complimento mi ruba un pezzo d’anima”: così Sarah Kane, drammaturga inglese scomparsa tragicamente ancor prima di compiere trent’anni, parlava attraverso la voce del suo ultimo personaggio. Un talento immenso, il suo, che in molti non hanno capito, se non dopo la sua morte. Niente era un tabù per lei e tutto era possibile nel suo teatro, che era proprio come è la vita stessa, crudele e magnanima, efferata e  salvifica.

Nata il 3 febbraio 1971 a Brentwood, vicino a Londra, Sarah Kane inizialmente subì il fascino della poesia, abbandonata presto per dedicarsi al teatro. Dopo gli studi di drammaturgia, iniziò a farsi conoscere nel 1994 con la trilogia di monologhi Sick. Un anno dopo, debuttò al Royal Court di Londra con la sua prima opera, Blasted, in cui venivano messe in scena immagini di violenza. Forte di un grande battage pubblicitario, lo spettacolo suscitò reazioni contrastanti e qualcuno la accusò di giocare volontariamente la carta del sensazionalismo per sconvolgere la platea. Del resto, nulla veniva risparmiato allo spettatore: masturbazione, fellatio, stupro, defecazione e persino cannibalismo, tutto ambientato in una stanza d’albergo nel Nord dell’Inghilterra in un clima da guerra civile. Lei commentò così la sua scelta:

Non c’è niente che non si possa rappresentare in scena: affermare di non poter raccontare qualcosa, dire che non se ne può parlare, è un atto di ignoranza terribile. Volevo essere sincera fino in fondo sull’abuso e sulla violenza. Tutta la violenza presente nel testo è stata inserita attentamente nel plot ed è stata strutturata secondo un punto di vista drammaturgico che mi ha permesso di dire quello che volevo sulla guerra. La logica conclusione dell’atteggiamento che produce un caso isolato di stupro in Inghilterra è la violenza etnica in Bosnia. E la logica conclusione di come la società si aspetta che gli uomini si comportino in guerra.

Seguirono Phaedra’s love nel 1996, Cleansed e Crave nel 1998, altrettanto estremi e sconvolgenti. Un anno dopo la sua situazione personale peggiorò, anche in seguito alla fine della storia con la sua compagna. Dopo un’overdose di medicinali, Sarah venne ricoverata in ospedale per depressione. Non ne uscì più: il 20 febbraio 1999 venne trovata morta nel bagno, dopo essersi impiccata con i lacci delle sue scarpe. Solo pochi giorni prima aveva scritto di getto un monologo in cui dava voce ai suoi stessi fantasmi. “Muoio per una a cui non importa / muoio per una che non sa proprio / mi stai spezzando”, scrisse, prima di cedere alla disperazione.

Proprio il suo ultimo lavoro, 4.48 Psychosis, venne rappresentato postumo al Royal Court Theatre per la regia di James Macdonald nel giugno 2000. Il titolo era un chiaro riferimento all’ora della notte in cui, secondo le statistiche, avverrebbero più suicidi. Prima di entrare in programmazione, fu presentato di fronte a una platea speciale: famiglia, amici, colleghi e drammaturghi celebri, come Harold Pinter e Joe Penhall. Ne uscì una serata strana, intrisa di un senso di perdita e di scoramento, ma anche di grande e deflagrante potenza. Il fratello di Sarah, Simon Kane, tempo fa ha raccontato al Guardian le sensazioni provate in quell’occasione riguardo all’opera, che per molti celava in nuce i prodromi di quanto sarebbe poi accaduto.

A quel tempo, l’ultima cosa che avrei voluto dire era che si trattava della sua lettera d’addio prima del suicidio. Sapevo che non era solo quello, era quello il punto. Ma Sarah si è uccisa davvero e stava scrivendo uno spettacolo su come ci si sentisse a essere così depressi da pensare al suicidio. In sostanza, da qualsiasi parte di guardi 4.48, si vede come i confini fossero sempre più labili. Quel tipo di incertezza è parte stessa del lavoro. La malattia mentale spesso viene ritratta in maniera romantica oppure considerata follia. Odio questa parola. Sarah voleva spiegare come una cosa patologica non fosse necessariamente illogica.

Ecco perché, a vent’anni dalla morte di Sarah Kane, la sua ultima opera merita di essere vista e recepita non solo come un testamento, ma come uno stupefacente esempio di tutto ciò che è teatro. Giocosa e intima, piena di energia, ma anche di un senso di perdita: con grande precisione, senza dimenticare il valore dell’improvvisazione, la drammaturga ci invita ancora nel suo mondo, senza svelare ogni mistero e senza cedere a qualunque moto o istinto di categorizzazione. Un mondo che è possibile scoprire anche nella raccolta di tutti i suoi drammi intitolata Tutto il teatro ed edita da Einaudi, da cui è tratto questo passaggio di 4.48 Psychosis:

La lucidità si trova nel centro di convulsione, lì dove la folla viene consumata dall’anima spaccata in due.

Mi conosco.

Mi vedo.

La mia anima è presa in una ragnatela di ragioni
tessuta da un dottore per aumentare il numero dei sani.

Alle 4 e 48

dormirò.

Sono venuta da e per essere guarita.

Tu sei il mio dottore, il mio salvatore, il mio giudice onnipotente, il mio prete, il mio Dio, il chirurgo della mia anima.

Ed io sono la tua discepola verso la lucidità.

Tutto il teatro

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