"Siamo libere di scegliere se e come avere figli?" - INTERVISTA a Ilaria Maria Dondi

"Perché è così difficile prendere atto che il mondo è cambiato e, così, anche i modelli che possiamo e dobbiamo proporre alle giovani generazioni su relazioni e genitorialità?". La scrittrice Nadia Busato intervista Ilaria Maria Dondi, autrice del saggio "Libere" che, attraverso un inventario inedito di tipologie di madri e di donne senza figli, racconta come esistano mille modi di essere madri e mille di non esserlo, oltre le aspettative, i giudizi e i pregiudizi, gli stereotipi, le imposizioni e persino le leggi.

Alcune parole hanno molti significati. Cambiano a seconda di come vengono pronunciate o del contesto in cui sono collocate. Tecnicamente, sono definite parole polisemiche e, in italiano, sono l’oggetto preferito degli enigmisti. Pensiamo a credenza, che indica sia il mobile di casa che la fede in qualcosa; oppure a campo, che possiede un significato diverso se stiamo parlando di squadre, di agricoltura oppure di connettività.

Nella grande famiglia delle parole polisemiche italiane, maternità è un caso unico. A leggerne le definizioni sul dizionario si rischia più volte il cortocircuito, perché viene definita come “la condizione della vita della donna che inizia biologicamente con il concepimento”; oppure è sinteticamente indicata come “il diventare e l’essere madre”, lasciandoci il dubbio se sia più importante “esserlo” o “diventarlo”, cioè se si può essere madri al di là della triade concepimento – gravidanza – parto.

Poco oltre, però, ecco che entriamo nel regno della magia e della spiritualità, dove compaiono il “desiderio di” e anche il “legame naturale”, più una serie di termini non meglio specificati, ma tutti positivi, come l’attesa e le gioie della maternità. Entra poi in campo la normativa, con “il rapporto anagrafico-giuridico tra figlio e madre”: un rapporto di cui nella legge italiana rimane a fatica traccia, considerato che il diritto delle madri a dare ai figli il proprio cognome è una novità sancita dalla freschissima sentenza della Corte costituzionale n.131 del 2022. Prima si poteva, sì; ma con una serie di ostacoli burocratici che ricordano tanto il mitico lasciapassare A38 di Asterix e Obelix. E comunque: aggiungere il cognome materno a quello paterno richiede una marca da bollo da 16 euro per la presentazione dell’istanza al Prefetto. Giusto per ricordarci che diventare mamme è un plus; e costa sempre più che essere padri.

Infine, ecco che questa parola trasformista diventa anche una sineddoche (figura retorica in cui si indica un tutto nominandone una parte) capace di indicare un reparto ospedaliero pluridisciplinare, il congedo lavorativo delle (poche) dipendenti tutelate, e addirittura una lunga tradizione artistica che va dalle icone bizantine a Maurizio Cattelan. In tutto questo caos di significati, è legittimo chiedersi: di cosa parliamo quando parliamo di maternità?

Le parole definiscono un mondo e, per gli esseri umani dotati di utero, la parola “maternità” arriva a definire addirittura percorsi obbligati di vita. Non succede lo stesso con i portatori di prostata e testicoli, per i quali la “paternità” rimane uno tra i tanti appuntamenti dell’esistenza, che possono scegliere se affrontare oppure no, con quanto impegno (soprattutto economico) e con quale etica. Da almeno mezzo secolo la statistica, l’economia e i media ci dimostrano ogni giorno che l’angelo del focolare è stato rottamato insieme ai vampiri succhiasangue, ai draghi sputafuoco e ai cattivi senza back-story alla Walt Disney. Eppure, il peso oscuro e pressante della maternità aleggia ancora sulle donne, che subiscono una serie così complessa e costante di condizionamenti da non potersi davvero dire “libere” nella realizzazione di tutti i percorsi della loro vita.

A mettere un po’ d’ordine nel caos semantico tutto italiano della maternità ci pensa Ilaria Maria Dondi, direttrice responsabile di Roba da Donne, e autrice del saggio Libere. Di scegliere se e come avere figli uscito per Einaudi all’inizio del 2024. Un lavoro che unisce la storia di una donna come tante altre all’indagine e all’impegno di una femminista, che accomuna sempre più uomini e donne sui temi della genitorialità, dei diritti, della cultura. L’abbiamo incontrata a pochi giorni dall’uscita del suo esordio in libreria. E questo è quello che ci ha raccontato.

D: Quando hai iniziato a pensare a questo saggio? 

R: Quando sono diventata madre, nel 2016; dopo essere stata per quasi trentacinque anni una donna senza figli. Avevo già sperimentato su di me lo stigma e le aspettative che la società riversa sulle donne che non hanno – o non hanno ancora – figli. Prima ancora che mio figlio nascesse, avevo già compreso che lo stigma e le aspettative (che sono solo apparentemente diversi) vessano anche le madri. Non mi riconoscevo nelle narrazioni di maternità romanticizzate o sacrificali; ma neppure nel racconto di una genitorialità “sgarruppata”, incapace e un po’ comica, buona per farci i meme sui social ma altrettanto stereotipata. Per assurdo, pur con un bambino tra le braccia, continuavo a riconoscermi di più nelle donne senza figli per scelta: rifiutavo di definire la mia identità nella maternità, e anche di farne l’identità sovrastante. In quel periodo scrissi l’articolo “Non sei mamma, non puoi capire” e le frasi dette alle donne senza figli da chi li ha, che è stato l’inizio della riflessione che ha portato a questo saggio.

Il pezzo rimbalzò ovunque e mi restituì un coro di donne con o senza figli che mi raccontavano il loro smarrimento, simile al mio e sempre diverso. La mia voce aveva richiamato altre voci. Tutte risuonavano a vicenda e potevano dirsi, per una volta, fuori dalla logica a squadre che oppone chi ha figli a chi non ne ha; chi è childfree per scelta e chi childless per condizione subita. Un giudizio che ci fraziona in pezzi sempre più piccoli e, così facendo, tiene sotto controllo l’unica maggioranza discriminata della Storia: il genere femminile. Ho sentito il bisogno di indagare questo controllo riproduttivo (e non riproduttivo) che trae nutrimento dalle religioni e dalle storie antiche, ma si è radicato tramite le leggi e la morale comune. Ho sentito il bisogno di andare a stanare il cortocircuito per cui la società ci pretende madri, ma se lo diventiamo fuori dal matrimonio o di una coppia eteronormata, oppure troppo presto o troppo tardi, o se siamo donne disabili o razzializzate, allora ci giudica e ci delegittima. Perché non è vero che essere madre è la norma ed essere senza figli è l’anomalia. Per il nostro sistema sociale, l’anomalia da condannare  è il compiersi del nostro presunto dovere riproduttivo fuori dalle regole patriarcali.

D: Questo lavoro intreccia la tua esperienza personale di maternità con il tuo impegno per la decostruzione degli stereotipi. A partire dal fatto che, per te, l’esperienza della gravidanza ha portato a una seria depressione post-parto che, fisiologicamente, affligge una percentuale che è stimata tra il 70 e l’80% e di cui pure pochissimo si parla e non si previene. Quanto è stato complesso questo lavoro di decostruzione degli stereotipi? 

Userei il tempo presente, per dire quanto è complesso il lavoro di decostruzione degli stereotipi di genere. È inevitabile sia così: nasciamo e cresciamo in una società patriarcale; riceviamo una formazione maschilista. Scegliere di iniziare un percorso di decostruzione è, appunto, una scelta e significa: rimettere in discussione il sistema di valori che davamo per assodato, riconoscere la propria responsabilità – almeno in parte – nelle discriminazioni che oggi combattiamo. Un lavoro complesso e continuo. Anche per me, il fatto di aver scritto un saggio sul tema dei diritti riproduttivi, che sono anche diritti a non riprodursi, aver smontato e ricostruito l’argomento indossando delle lenti femministe intersezionali, non significa che io abbia raggiunto il traguardo e finito il mio lavoro di decostruzione. 

Alla fine della nota metodologica, scrivo: 

Premetto infine l’insufficienza oggettiva della mia visione privilegiata di donna bianca, occidentale, abile, cisgender ed eterosessuale: dando voce ad altri punti di vista, ho cercato di offrire un orizzonte narrativo più ampio ma che so, per fortuna, non essere esaustivo. Resta infatti la consapevolezza del limite intrinseco a ogni individualità; limite che accolgo però con gioia e come occasione. Chissà che, anche grazie a queste mie parole, ne giungano altre: a sollevare dubbi, a reclamare spazi e chiedere rappresentazione, ad abbracciarsi e contraddirsi per crescere ancora.

Ecco, credo che ogni processo di decostruzione debba essere, oltre che un lavoro individuale, anche un impegno collettivo.

D: Il tuo saggio utilizza un linguaggio radicalmente inclusivo. Oltre a essere un saggio sulla maternità, è anche un compendio di identità sociali alle quali offri una rappresentazione di forma e di merito. Il tema del linguaggio e della forma spesso oscura il contenuto della letteratura contemporanea. Come ti poni rispetto a questo tema? 

Non credo di aver utilizzato un linguaggio radicalmente inclusivo. Ho fatto precise scelte linguistiche, dichiarate appunto nella nota metodologica; nella quale, però, preciso anche di aver utilizzato in alcuni passaggi forme sintetiche binarie (maschile/ femminile), insufficienti per rappresentare soggettività trans e non binarie. Non ho usato per esempio né asterischi, né schwae, ma ho cercato semmai di conciliare la necessità di chiarezza e sintesi con la volontà di una rappresentazione che non lasci indietro nessuna e nessuno; o almeno ci ho provato. 

Credo che le scelte linguistiche e stilistiche debbano essere calate nel contesto: perché un codice – qual è il linguaggio – funzioni, deve essere comprensibile a chi lo riceve. Così come in una lezione accademica di un corso di gender studies, posso scegliere di utilizzare * e ə, in un saggio divulgativo è doveroso da parte mia scegliere altri codici linguistici. Tanto più che le forme inclusive, tendono a essere escludenti, ad esempio per persone femministe ma con neuro divergenze, oppure migranti.

D: Spesso le tue riflessioni poggiano su report statistici, come quello sulla pressione demografica globale: nel 2050 saremo 10 miliardi di persone. Altro che denatalità: siamo già troppi! È come se, di fronte alla catastrofe climatica, i governi continuassero a sollecitare i cittadini ad aumentare i consumi, a bruciare più benzina, gas e carbone. Chiaro che il punto non è quantitativo, ovvero: fare più bambini. Allora perché questa pressione sociale costante sulla maternità? 

R: Sulla Terra siamo troppi, è un dato di fatto. Anche perché siamo, come specie, il peggiore dei virus: la nostra presenza irresponsabile e l’uso intensivo delle risorse sta letteralmente uccidendo il Pianeta e qualsiasi altra specie, tra cui la nostra. La denatalità e la decrescita demografica, demonizzata dai governi occidentali, è in realtà una questione razzista e colonialista. Si tratta cioè di garantire un tasso di ricambio generazionale “autoctono” e bianco, tale da mantenere il sistema capitalistico maschilista patriarcale. I flussi migratori, ai quali noi stessi abbiamo partecipato in passato, possono compensare questa “denatalità nazionalista”. Questo è oggi il timore dell’occidente: la miscegenazione, ovvero la perdita del privilegio bianco e coloniale.

D: Nel tuo libro, gli uomini sono quasi assenti: la parola uomini compare in tutto 28 volte in tutto il saggio. Dovendo scegliere un punto di vista per affrontare un tema vasto come quello della maternità, è stata una scelta quella di raccontarla come un’esperienza che le donne affrontano praticamente in solitaria? 

R: Sì, è stata una scelta. Sia perché il tema era già talmente ampio che, includendo anche la prospettiva della paternità, avrei corso il rischio di dover sacrificare complessità alla necessità di sintesi. Sia perché, le donne affrontano la maternità e la non maternità praticamente in solitaria: anche quando c’è un partner, la discriminazione lavorativa, l’aspettativa sociale e la stessa coercizione riproduttiva o meno, pesano sulle donne. La maternità (anche solo quella in potenza, per la serie: “sei una donna in età fertile, quindi potenziale madre”) è uno zaino che pesa per lo più sulle spalle delle donne: sono loro che rinunciano al lavoro, o hanno stipendi più bassi; sono le donne a rinunciare all’indipendenza economica necessaria (e propedeutica anche a tutelare dalla violenza domestica); siamo sempre noi donne a gestire tra il 70 e l’80% del lavoro non retribuito e di cura. Potremmo andare avanti all’infinito con gli esempi, come sai bene, ma credo che sia chiaro a tutti, soprattutto dopo quanto è accaduto alle donne lavoratrici durante la pandemia.

D: Lo scorso 4 novembre è morta Giovanna Covi titolare della prima cattedra in Italia in educazione di genere. In questi giorni, Internazionale pubblica un articolo che fotografa l’assenza delle tematiche di genere e femministe dai corsi di studi universitari italiani. Carla Lonzi diceva che l’educazione per la donna “consiste nell’iniettarle lentamente un veleno, che la immobilizza sulla soglia dei gesti più responsabili”. Anche nel tuo saggio la pressione sociale e i modelli stereotipati hanno un peso determinante nel condizionare la libertà riproduttiva delle donne. Vedi una correlazione tra l’articolo di Camilli e le pressioni che ben descrivi?

R: Credo che l’articolo di Camilli, come il saggio di Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, offrano entrambi uno sguardo acuto sul tema e ripropongano una questione centrale nel femminismo della differenza. Gli studi di genere, la filosofia femminista e, in generale, i movimenti socio-culturali che riguardano le donne vengono spesso visti come “roba da donne”, per citare la nostra testata: qualcosa di frivolo o che comunque vale meno rispetto alle cose importanti, serie e universali degli uomini.
Quello che riguarda la donna si ritiene che in qualche modo appartenga solo alle donne: manca proprio una genealogia, come ci ricorda Camilli, di autrici, scrittrici, scienziate, filosofe, artiste. D’altronde, i grandi pensatori, da Aristotele a Sant’Agostino, si sono affannati nel tentativo di dimostrare la superiorità maschile. Aristotele ci considerava, a tutti gli effetti, degli uteri-forni (oggetti passivi) in cui l’uomo (soggetto attivo) mette il seme, al quale il filosofo attribuiva l’afflato vitale, la parte agente. Oggi, del resto, sappiamo che il pregiudizio intellettuale che ci ha proibito di accedere alla magistratura fino al 1965, in quanto considerate isteriche, uterine e volubili, è lo stesso che si è trasferita nella delegittimazione e nel rifiuto, spesso anche violenti, del pensiero femminista.

D: Grande assente dal tuo saggio è la religione. Basandoti su scienza e statistica, non poteva essere altrimenti. Eppure, lo stereotipo granitico della maternità trova nella devozione mariana e, più in generale, nel cattolicesimo un muro pressoché invalicabile. Che io sappia, non esiste un movimento pro-vita che si dichiari laico. Giorgia Meloni ha conquistato il voto delle donne italiane professandosi “donna, madre, cristiana”: tre stereotipi che nel suo caso sono non solo discutibili, ma fortemente contraddittori (non è sposata, ha una sola figlia avuta in età avanzata, la conciliazione della sua maternità è resa possibile da uno stuolo di collaboratori, e molto altro). Il modello stesso di maternità cattolica è rappresentata dalla Madonna: un essere che, secondo l’interpretazione del clero, Dio ha esonerato dalle mestruazioni dandole in dono, al contempo, una verginità perenne. Insomma: un modello inarrivabile. È stata una scelta quella di relegare a margine il tema religioso dal tuo saggio? 

R: È stata una scelta dettata da vari motivi. Il primo è che si è molto scritto e si evoca spesso l’aspetto religioso rispetto ai fatti della maternità e dalla non maternità. Inizialmente, anche io ho steso un lungo capitolo sul tema, che abbiamo poi deciso di tagliare dalla versione finale per essere il più contingente, attuale e concreta possibile. Capire da dove arriva la cultura dell’oppressione riproduttiva è fondamentale; ma in questo lavoro puntavo a stanare i meccanismi sociali, politici e legislativi che oggi continuano a negare il desiderio femminile e a promuovere, al contrario, un presunto dovere riproduttivo della femmina. Siamo talmente sottoposte a violenza e coercizione riproduttiva, sin da bambine, che spesso non ce ne rendiamo neppure conto, pensiamo che la nostra oppressione faccia parte di un’epoca e di narrazioni passate, invece è istituzionalizzata, socialmente accettata e persino promossa nei luoghi della salute riproduttiva. Credo sia tempo di toglierci il velo di Maya e occuparci davvero delle ragazze e delle donne di oggi e di domani.

D: Il 2023 per le femministe si è chiuso con il dibattito sulle dichiarazioni della senatrice di FdI, Lavinia Mennuni, da sempre in prima fila nella lotta all’aborto e al gender, che descrive dettagliatamente la pressione imposta alle donne e la mappa della coercizione. Dice Mennuni: “dobbiamo aiutare le istituzioni, il Vaticano, le associazioni  a far sì che la maternità torni a diventare di nuovo cool. Dobbiamo far sì che le ragazze di 18 anni, di 20 anni, vogliano sposarsi e vogliano mettere su una famiglia”. Nessun genitore, nemmeno la presidente del Consiglio, vorrebbe questo destino per le proprie figlie: perché è così difficile prendere atto che il mondo è cambiato e, così, anche i modelli che possiamo e dobbiamo proporre alle giovani generazioni su relazioni e genitorialità? 

R: Come dici tu, neppure la presidente del Consiglio vorrebbe questo destino per la propria figlia. Credo che tutta la retorica maternalista di figure politiche come Mennuni, Piantedosi, Roccella e, in generale, della destra serva a ottenere voti e al controllo delle masse, ma siano loro i primi a non crederci e, soprattutto, a rifiutarla per se stessi e per le loro famiglie. Basta guardare alle vite private di Meloni o di Salvini, che impugnando il crocefisso tuonando sulla necessità della famiglia tradizionale, per comprendere che quest’ultima non è più un valore, in primis per loro. Il populismo provita (o meglio anti-abortista!) che si interessa tanto alla vita di un feto quando non è neppure allo stadio di blastocisti, è lo stesso che non si preoccupa dei bambini vittime della violenza domestica, un fenomeno in crescita esponenziale nella cosiddetta famiglia tradizionale. Del resto, in un Paese e, ampliando il discorso, in un Occidente fortemente allo sbando, in cui si fatica a guardare al futuro senza paura, è indubbio che questo linguaggio così apparentemente risoluto e saldo che si richiama a valori monolitici, risulti rassicurante. Lo abbiamo già visto accadere in passato e la retorica è sempre la stessa: Dio, patria e famiglia. Una triade in cui alla  donna è imposto l’ideale di madre e angelo del focolare. Le conseguenze, drammatiche, le sappiamo; ma in molti se ne stanno dimenticando. 

Il libro

Libere
Di scegliere se e come avere figli

di Ilaria Maria Dondi
Einaudi, 2024

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!