L'eredità di Renata Viganò e il filo che unisce nonne, madri e figlie

Ingiustamente dimenticata dai libri scolastici e spesso emarginata dai dibattiti culturali, Renata Viganò fu una delle protagoniste più attive della Resistenza italiana, di cui ci donò un affresco con l’opera più importante della sua carriera letteraria, “L’Agnese va a morire”. Un esempio di lotta, presa di consapevolezza e coraggio senza pari.

È la vita che imita l’arte o è, al contrario, l’arte che imita la vita? Chissà se Renata Viganò, scrittrice, partigiana e poetessa, pensò a uno dei quesiti miliari di Oscar Wilde quando compose il suo romanzo di maggior successo, L’Agnese va a morire.

Il dubbio è lecito, dal momento che non si può fare a meno di notare una certa correlazione tra l’evento scatenante che condusse la sua protagonista a unirsi ai partigiani e quello che convinse la sua autrice, Renata Viganò appunto, a fare altrettanto in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943.

Una risposta ce la fornisce già, in parte, la stessa scrittrice bolognese, la quale, come si legge su Storie dimenticate, ha, infatti, dichiarato che:

Ho scritto «L’Agnese va a morire» come un romanzo, ma non ho inventato niente. È la mia testimonianza di guerra. È la ragione per cui la Resistenza rimane per me la cosa più importante nelle azioni della mia vita. L’ho vissuta prima di scriverla, e non sapevo di viverci dentro giorno per giorno. Il personaggio dell’Agnese non è uno solo. Non ho conosciuto una donna che si chiamasse Agnese e che abbia compiuto quello che ho raccontato di lei. Ma tante «Agnese» sono state insieme a me nei fatti e negli eventi, e gli eventi e i fatti o accadevano veramente tanto vicini da averne diretta sicurezza di verità, oppure erano tali che vi partecipassi io stessa, qualche volta anche senza saperlo nel momento, e avendone coscienza più tardi.

Ma chi è stata Renata Viganò? E perché di lei non vi è quasi traccia nei volumi scolastici, nonostante il romanzo sopracitato sia uno dei testi neorealistici più intensi, introspettivi e diretti dedicati alla Resistenza?

Chi era Renata Viganò

Renata Viganò nacque a Bologna il 17 giugno 1900, da Eugenio Viganò, un «socialista dolce, alla De Amicis, ma giusto e buono», come lo definì la figlia, e Amelia Brassi, appartenente a una famiglia agiata.

Viganò frequentò il liceo classico conservando, nel suo cuore, due sogni: da un lato, il desiderio di diventare medico; dall’altro, la vocazione letteraria, già espressa all’età di tredici anni con la raccolta di poesie Ginestra in fiore e, tre anni dopo, con il volume Piccola fiamma: liriche 1913-1915.

Al primo dovette rinunciare presto. A causa della guerra, infatti, la ditta di famiglia andò incontro a un tracollo finanziario, e Renata, già determinata e volitiva, decise di abbandonare gli studi e «prendere un posto nella classe operaia», facendo l’inserviente e, in seguito, l’infermiera negli ospedali bolognesi.

Prendersi cura delle persone che versavano in condizioni difficili non le fu, però, d’intralcio per quanto riguardava l’altra sua passione, la letteratura. Al punto che il destino le mise sul cammino l’incontro con quello che, poco dopo, sarebbe diventato suo marito: lo scrittore Antonio Meluschi, sposato nel settembre del 1937 e da cui ebbe (adottandolo) il figlio Agostino.

Nella loro casa bolognese di via Mascarella 63, quindi, si ritrovavano – come si legge su Treccani – alcuni dei maggiori intellettuali dell’epoca, da Pier Paolo Pasolini a Enzo Biagi, da Giorgio Bassani a Achille Ardigò. Un clima fervente e stimolante che, però, fu interrotto dall’avvento della guerra e dalle sue cupe conseguenze.

Se fino al settembre 1943 la vita di Viganò procedette relativamente tranquilla, tra il lavoro in ospedale e la scrittura di poesie, racconti, elzeviri e articoli per periodici e quotidiani, la firma dell’armistizio rappresentò, invece, una svolta esistenziale, e impose, più che mai, la necessità di lotta.

Il motivo ce lo rivela, ancora una volta, la stessa Renata, raccontando della volta in cui, anni prima, scoprì che il fratello e il fidanzato di una sua collega, Bianca Fontana, fossero in prigione «perché comunisti»:

Fu uno shock: nella mia vita chiusa non sapevo che esistessero ancora i carcerati politici, mi parevano cose dei libri di storia, roba dell’Ottocento, Silvio Pellico, lo Spielberg… Invece no, erano vivi, attuali, e a causa di quei tali in camicia nera che del resto mi erano sempre stati antipatici per istinto. Toccai terra come se scendessi da un pallone, e da quel momento odiai tutto ciò che era fascista, i loro canti, i loro motti, il loro aspetto funereo. Decisi che non avrei mai preso quella tessera, trovai modo che anche alla Bianca fosse risparmiato il danno; a poco a poco lei mi fece conoscere altri compagni e compagne, imbastii le mie prime nozioni di socialismo, che alla radice non si dipartivano poi tanto dagli ingenui insegnamenti della mia mamma. Non si poteva altro se non trovarci insieme tra gente fidata, e parlare, imparare, costruire la nostra voglia e speranza di rivolta, incominciare senza saperlo la Resistenza.

Ecco, dunque, che l’umile – ma non per questo meno autentica – consapevolezza politica di Renata Viganò si risvegliò, alimentata dalla rabbia per le ingiustizie subite da terzi e dalla volontà di porvi riparo. Desiderio che fu, in seguito, accolto anche dal marito – conosciuto poco dopo l’episodio citato –, figura fondamentale per la formazione politica di Renata Viganò che «pettinò la matassa un po’ arruffata dei miei pensieri, e [con cui] incominciai così la mia vera “scuola di partito”».

L’impegno partigiano e la scrittura: le donne di Renata Viganò

L’armistizio segnò l’inizio della seconda parte della vita di Renata Viganò, introdotta nella battaglia partigiana con il nome di “Contessa” e le mansioni di staffetta, collaboratrice della stampa clandestina e infermiera. Le tensioni, tuttavia, erano molteplici:

Ho incominciato la mia lotta partigiana in compagnia della paura. In principio, mentre ero ancora a Bologna, mi terrorizzavano le incursioni aeree. Non riuscivo a raffigurarmi che cosa fosse il crollo di una casa, credevo che i muri si rovesciassero come quinte, invadendo tutti gli spazi, creando monti di pareti sovrapposte, con le persone sotto, come a strati di corpi, e sopra i mattoni, le finestre, le porte, i mobili. Ai primi bombardamenti vidi che invece i portici, le costruzioni, i campanili, si affondavano, si sfacevano, quasi si risucchiavano nel vuoto del sottosuolo.

Renata Viganò incontra il terrore della guerra, e lo affronta, sempre con il figlio al proprio fianco, offrendo tutta se stessa e tutto il suo impegno, districandosi tra la Romagna e le valli di Comacchio. In questi anni scrisse, inoltre, per l’Unità, Noi donne, Il Progresso d’Italia e altre riviste, e mentre si trovava sfollata a Imola con la famiglia partecipò anche alla stesura della testata clandestina La Comune, dove:

Scrissi cinque pezzi, tutti rivolti alle donne, a quelle, cioè, che avevano cuore e amore, che soffrivano per cento angustie, che tremavano per i loro cari, assenti o presenti ma tutti immersi nel pericolo.

La stessa ispirazione che, una volta concluso il conflitto, la portò a redigere L’Agnese va a morire, pubblicato nel 1949 da Einaudi. A percepirne istintivamente e subitaneamente la caratura letteraria e umana fu Natalia Ginzburg, all’epoca redattrice presso la casa editrice torinese, che non appena lesse il manoscritto ne esaltò

[Il] magnifico stile misurato, sobrio, [i] magnifici effetti di paesaggio… Da farsi, da farsi, da farsi.

L'Agnese va a morire

L'Agnese va a morire

Di questo romanzo di Renata Viganò, nella sua introduzione al testo, lo scrittore Sebastiano Vassalli scisse che "è una delle opere letterarie più limpide e convincenti che siano uscite dall'esperienza storica e umana della Resistenza". Merito di uno stile cristallino, aderente al vero e dalla potenza disarmante, in grado di ritrarre l'autenticità e la "presenza titanica" della sua protagonista, Agnese.
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La narrazione ricalca un po’ la storia di Renata. Agnese è, infatti, una donna non più giovane, tranquilla e, come si legge sull’Enciclopedia delle donne, quasi infantile nella sua ingenuità politica. A convincerla a unirsi alla causa partigiana, però, vi è un episodio tanto piccolo quanto fondamentale per la sua potenza “illuminante”: l’uccisione della sua gatta da parte dei nazisti.

Una brutalità insensata che, sommandosi alla scomparsa del marito Palita avvenuta sempre per mano dei tedeschi, spinge Agnese a reagire alla violenza e a seguire il suo istinto, portandola, pur senza idealismi politici o intellettuali, ad abbracciare la lotta antifascista e la Resistenza.

Come ha spiegato la stessa Viganò, quindi:

L’Agnese è la sintesi, la rappresentante di tutte le donne che sono partite da una loro semplice chiusa vita di lavoro duro e di famiglia povera per aprirsi un varco dopo l’altro nel pensiero ristretto a piccole cose, per trovarsi nella folla che ha costruito la strada della libertà. Se non ci fossero state loro, le donne, operaie, braccianti, contadine, di pianura e di montagna, che si abituavano alle «cose da uomini», e a poco a poco capivano ognuna secondo la propria intelligenza, con coraggio e con paura, che «così» bisognava fare, che quella soltanto era la via da seguire, l’esercito partigiano avrebbe mancato di una forza viva, necessaria, spesso determinante. La donna del popolo è combattente, quando combatte per sé e per i suoi, sia contro la povertà in pace, sia per la vita in guerra, la guerra partigiana non maledetta come quella di conquista, ma accettata e condotta per vincere i nemici di ogni tempo, oppressori in patria e aggressori stranieri.

Il percorso di Agnese/Renata è quasi commovente, e affonda le sue radici in altre due figure femminili di estrema importanza nell’esistenza della scrittrice bolognese. La prima è la madre, Amelia Brassi, una donna «mite, dolce e ottocentesca, ma anche stranamente arrogante con chi era più in alto di lei nella condizione sociale e arrendevole con chi riteneva inferiore», e che, insegnandole a non sentirsi superiore rispetto a chi si trovava in condizioni di inferiorità sociale, le impartì un profondo senso di giustizia e democrazia.

La seconda è, invece, la bisnonna materna Caterina Mazzetti, donna forte, ribelle e anticonformista, alla guida di una ditta di vetture per matrimoni, battesimi e funerali ma, se necessario, pronta a combattere e porsi in pericolo: come quando il figlio Cesare fuggì da casa unendosi a Garibaldi, e fu raggiunto dalla stessa Caterina. Lo ricordò Renata:

[All’epoca] lei abitava in una casa da signori nel centro della città, era padrona di cento carrozze, avvezza a comandare, […] ma in quel tempo dormì in valle nelle capanne di canna dei pescatori e fece da vivandiera ai gruppi di garibaldini. Tutto questo per star vicino al figlio…

Non è difficile, dunque, trovare le somiglianze con Renata, che al momento di compiere la sua scelta resistenziale, ormai non più giovane (proprio come la “sua” Agnese):

[quando mio marito andò via partigiano] presi il bambino, lasciai a casa la roba e la paura, e fui partigiana anche io. Qui somigliai davvero alla bisnonna Caterina, come un ramo in alto che va per la stessa via delle sotterranee radici… Seguii la sua strada di acqua e di guerra, guardai quel cielo con pensieri quasi uguali, servii lo stesso nome di comandante nella medesima arma.

Al punto che, Renata Viganò, tenente lo divenne sul serio, come narrò nel racconto “L’ufficiale sono io” contenuto in Arriva la cicogna:

Avevano ragione. È un po’ strano che un tenente sia una donna piuttosto anziana con un bambino per mano. […] Eppure io la guerra l’ho proprio fatta così: senza sapere di essere un ufficiale, col bambino per mano e il tritolo nella borsa della spesa.

Le donne occuparono sempre un ruolo centrale nella vita letteraria di Renata Viganò. Dopo L’Agnese va a morire, con cui vinse il Premio Viareggio e che fu tradotto in 14 lingue, seguirono, infatti: l’inchiesta, condotta tra il 1951 e il 1952 durante la campagna di monda in Lomellina, Mondine, dedicata alla figura della “martire” Maria Margotti; Donne della Resistenza (1955), ispirato alle donne antifasciste bolognesi; il romanzo Una storia di ragazze (1962); e la raccolta di racconti Matrimonio in brigata, pubblicato nel 1976.

Nello stesso anno, il regista Giuliano Montaldo realizzò anche la trasposizione cinematografica de L’Agnese va a morire (impreziosita dalle musiche di Ennio Morricone), che Renata Viganò, però, non fece in tempo a vedere a causa della sua scomparsa prematura.

L’avrebbe apprezzata? Molto probabilmente, sì. Ma non è da escludere che, osservando scorrere sullo schermo le vicende delle sue molteplici “Agnese” incontrate lungo il percorso, avrebbe potuto pensare che, in fondo, non vi sarebbero state, in realtà, alternative alla partecipazione alla lotta e alla battaglia contro le ingiustizie.

Non importa la poca consapevolezza iniziale o la scarsa dimestichezza politica. La storia di Viganò e delle donne da lei delineate, infatti, è la dimostrazione che – con buona pace di Simone de Beauvoir – “eroine non si nasce, ma si diventa”. Proprio come Renata, Agnese e le altre. E tutte noi.

Con parole sue

Con parole sue

La storia di Renata Viganò merita di essere raccontata e diffusa il più possibile. Al punto da divenire anche una "Vita illustrata". Si tratta della graphic novel arricchita dai disegni di Matteo Matteucci, le tinte di Alessandro Battara e i testi di Claudia Alvisi e Tiziana Roversi, riuniti in "Renata Viganò. Con parole sue". Il volume, pubblicato nel 2018, è adatto anche ai lettori più piccoli e curiosi (da 9 anni in su).
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