Niente, nella vita di una persona, può superare l’afflizione e il dolore per la perdita di un figlio. Che se ne vada in seguito a una malattia, vittima di un incidente stradale, oppure che nemmeno faccia in tempo a venire al mondo, lo strazio che un genitore prova nel dover dare l’addio ai propri figli scomparsi può essere compreso solo da chi ha passato un dramma simile. Gli altri, invece, dovrebbero usare solo un doveroso silenzio e il massimo rispetto possibile.

Molti descrivono la vita dopo la morte di un figlio semplicemente come “sopravvivenza”, non è difficile immaginare perché; parlano di un’inerzia nel fare le cose di tutti i giorni, o della forza necessaria ad andare avanti per gli altri figli che sono rimasti, e che non hanno nessuna colpa, ma semmai condividono lo stesso senso di vuoto e smarrimento.

C’è chi sceglie di introiettare talmente tanto quest’esperienza da creare un vero e proprio scudo esterno per impedire che gli altri possano parlare dell’argomento e riacuire il dolore, chi invece trova il coraggio e la volontà di mettere al servizio degli altri la propria storia, anche solo per condividere insieme lo stesso dolore.

Questa scelta coraggiosa è stata fatte da 6 mamme, che hanno voluto raccontare la perdita dei propri figli alla giornalista Gaia Simonetti, addetto stampa della Lega Pro che per una volta abbandona il calcio per parlare dell’argomento più buio e doloroso:

Barbara, Giovanna, Laura, Paola, Stefania e Stefania: questi i nomi delle mamme che, nelle pagine di Lettere senza confini, il libro, edito da ADV Edizioni di Firenze, che raccoglie le loro toccanti storie. Arrivano dalla provincia fiorentina, ma anche da Rieti, o da Mantova. Ciascuna con il suo bagaglio di dolore indelebile, con la sua dignitosa resistenza, con il ricordo di quei figli che, per motivi diversi, se ne sono andati. Mauro, Elena, Michela, Lorenzo, Filippo, e un bambino mai nato a cui mamma Barbara si rivolge chiamandolo solo “amore”. Questi ragazzi hanno perso la vita in incidenti stradali, sotto le macerie del terribile terremoto di Amatrice, o sono vittime di femminicidio. Sono, soprattutto, “il valore alla vita” come scrive mamma Stefania di Firenze “e tanto amore nel nostro cuore. Quell’amore che ogni giorno ci salva”.

I proventi del libro serviranno proprio a ridare un barlume di speranza a quei giovani che nel terremoto del Centro Italia hanno perso tutto: grazie a loro, infatti, saranno istituite due borse di studio. È il gesto estremo di amore e altruismo di queste mamme e dei loro figli che, anche se non ci sono più, possono davvero contribuire a regalare un sorriso e un sogno a tanti giovani come loro.

Tutte le loro storie sono da leggere con il cuore e con la mente; ma su tutte, abbiamo scelto di riportare quella di Barbara, dedicata proprio a quel figlio che non è mai venuto al mondo ma a cui lei sa di essere legata per tutta la vita.

La sua lettera, in maniera molto significativa, si chiama Quel coraggio che abbiamo.

Ciao amore, non ti ho potuto vedere, conoscere, prenderti tra le braccia. Ti scrivo. Di tempo ne è passato, ma non ha cicatrizzato la ferita. Brucia ancora nell’anima. Amore è una parola che sta bene sia per un maschietto che per una femminuccia. Non sono legata come i colori di una tutina a dover scegliere tra il rosa o il celeste. E poi, amore, è proprio un appellativo giusto, che ti calza a pennello. Se fosse un vestito, sarebbe quello più adatto a te.

Ti avvolgerebbe e ti proteggerebbe come avrebbero fatto le mie mani, quelle della tua mamma. Mi viene dal cuore chiamarti cosi, anche se ti confesso che, la parola cuore mi fa male. Mi rimanda a quella mattina di maggio, in cui il sole si era nascosto tra le nuvole, e il gel sulla pancia era meno freddo della sentenza. ‘Signora, mi spiace, non sento il battito del piccolo’. In quell’istante cade il mondo, crollano le certezze, si infrange la vita come se un vaso di cristallo caduto dal tavolo. I pezzi, anche se li raccogli, non combaciano più e rendono nitida l’immagine della mia esistenza che stava prendendo un’altra direzione e ora è senza meta.

Barbara parla delle attese, della curiosità durante la gravidanza, del desiderio di conoscere il volto del suo bambino.

Avevo mille attese. Mi chiedevo come crescevi e se già avessi potuto sapere se eri un piccolino o una piccolina. La notte ti sognavo, il giorno ti disegnavo con la mente. Nasino piccolo come il mio, capelli ricci come quelli del papà, forse con la mia curiosità e gli occhi vivaci ed attenti per scoprire la vita in tutte le sue angolature.

Il destino ha scelto un’altra strada. Ha voluto che noi due fossimo per sempre due estranei che non si conoscono e non possono percorrere lo stesso cammino. Ero pronta, ti aspettavo: mancavi solo tu. La nostra famiglia era impegnata nei preparativi per darti il benvenuto. Avresti dovuto pazientare con papà: se ti piaceva il calcio, non ti avrebbe accompagnato allo stadio a vedere la Fiorentina. Non è appassionato di pallone come me.

Ti sembra strano una mamma che segue il calcio? Sono sicura che ti saresti divertito ad attaccare con me le figurine sull’album o a seguire gli allenamenti della squadra di calcio della nostra città. Ti avrei parlato di moduli e fuorigioco. Avevo ‘studiato’ per te il mondo del pallone e visto tante partite. Una mamma ‘allenatore’ per divertire il proprio figlio con il calendario del campionato in tasca: eccomi qua. Il calcio si era affacciato nel nostro destino. Mi avevi preso in contropiede. Dopo anni di attesa, avevi deciso che volevi abitare in me.

La conferma della gravidanza, ricorda Barbara, con quel test di gravidanza dalla linea viola marcata, proprio prima di una partita.

 La prima cosa che pensai fu chiedermi se meritassi tanta gioia e come dirlo a tuo padre. La seconda fu parcheggiare il motorino. Pioggia, freddo, vento e caldo non mi fermavano. Avevo deciso di fermarmi per non rischiare con la tua vita. La terza cosa fu l’annuncio a casa. Con sorrisi e lacrime di gioia e il cane ad abbaiare e a correre per le stanze.

Avevi già sconvolto positivamente la nostra quieta esistenza e mi avevi aiutato a vincere una grande paura, che a me sembrava insormontabile. Quella degli aghi. Mi distendevo, chiudevo gli occhi e pensavo che l’ago prelevava il sangue per parlarmi di te. Le beta che aumentavano facevano diminuire ogni timore. Tutto procedeva come in un sogno. Il risveglio risuonò nella voce del dottore con i suoi occhi puntati al monitor. Quel giorno capii quanto fosse difficile trasformare in realtà i sogni. Scricchiolavano, infranti come i vetri colpiti da un pallone, che non ti vedrò mai calciare.

Dopo quel momento, ricorda Barbara, le parole degli altri, i tentativi di conforto.

‘La vita continua, forza, ci sarà di sicuro un’altra opportunità’. Erano le parole che mi sentivo dire. Volavano come bolle di sapone, impalpabili e senza forma. Una seconda occasione, anche se non ho mai smesso di crederci, non è mai arrivata. Non mi è stata concessa. Perché non potevo contare su una seconda chance? Gli anni sono passati con l’illusione di sentire crescere la pancia e una creaturina dentro di me.

Spesso mi chiedo nel silenzio della camera: ‘Un figlio è un dono. Ma come si decide chi lo merita e chi no?’. La risposta non viene da sola. Non è mai arrivata e so che resterà nell’aria. La realtà mi porta davanti agli occhi immagini di guerre e di bambini coinvolti in tragedie umanitarie. Tristezza e impotenza corrono assieme e si uniscono ad una tremenda verità. Non si vela, non si nasconde, non si rende meno amara.

Nessuno mi chiamerà mai mamma. E la vita continua – come dicono molti – meno piena e con un senso in meno. Dico io. Quel coraggio che abbiamo. Spesso è ben nascosto, introvabile. Altre volte percorre un tunnel lungo e buio. Scatta una luce fioca, dentro di noi, che diventa più accesa e ci porta a reagire e a ripartire. Quella luce ha un nome: coraggio.

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