Il delitto di Giarre e "Il silenzio dei giorni" dell'omertà omofoba - INTERVISTA

Ispirato al delitto di Giarre, che sancì la nascita di Arcigay in Italia, Il silenzio dei giorni ci racconta tutte le sfumature dell'omofobia, le problematiche culturali legate al patriarcato, facendoci riflettere su quanto siano ancora radicate in noi.

Se i moti di Stonewall del 27 giugno 1969 hanno dato il via al movimento di liberazione omosessuale, da cui nei decenni successivi nascerà la comunità LGBTQ+, il delitto di Giarre, 11 anni più tardi, sancì la nascita del primo circolo Arcigay in Italia.

Siamo nella provincia catanese, fra aranceti e viti, quando i corpi di Giorgio Agatina Giammonna, venticinquenne, e di Antonio Galatola, detto Toni, di 15 anni, vengono ritrovati quasi abbracciati, mano per mano, sotto un pino marittimo a pochi passi dalla tenuta agricola dei principi Grimaldi di Modica, freddati da un colpo di revolver Bernardelli calibro 7.65 sparato alla testa. I due erano spariti dal 17 ottobre.

È il 31 ottobre 1980, e ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, il mistero sulla fine dei due giovani non è stato ancora dipanato, benché le ipotesi, nel corso del tempo, non siano mancate.

Omicidio-suicidio, assassinio, suicidio, le voci rincorsesi negli anni sono state tante, come tanta, probabilmente, è stata l’omertà che ha coperto, e copre tuttora, la natura di questo delitto.

Toni era chiamato lo “zito” di Giorgio, il fidanzatino, in dialetto siciliano; e in effetti tra i possibili moventi di quel duplice delitto ci sarebbe proprio la pista dell’omofobia. Giammonna, in particolare, pare fosse gay dichiarato, e che all’età di 16 anni fosse stato sorpreso in auto dai carabinieri di zona assieme a un altro giovane, e quindi denunciato; per questo motivo sarebbe stato appellato con il soprannome di “puppu cô buḍḍu“, che suona più o meno come “omosessuale patentato”, naturalmente in senso dispregiativo.

Le forze dell’ordine seguirono le loro indagini, che portarono effettivamente all’individuazione di un colpevole, il tredicenne, nipote di Toni, Francesco Messina, impunibile proprio in virtù della sua minore età; il ragazzino sostenne che fossero state le vittime stesse a chiedergli di sparare loro, in cambio di un orologio, perché stanchi di essere scherniti dall’intero paese (presumibilmente a causa dell’omosessualità).

Lo zio e Giorgio mi hanno portato in campagna e mi hanno detto: ‘O ci uccidi o noi uccidiamo te’ – fu la sua deposizione – Mi hanno messo una pistola in mano e si sono sdraiati sull’erba, come per dormire.

Tuttavia, a distanza di un paio di giorni Messina ritrattò la confessione, spiegando di essersi preso la colpa del delitto solo su pressione dei carabinieri; del resto, neppure i giornali dell’epoca sembrarono essere persuasi dalla versione fornita dal tredicenne, così come non era convinto l’allora sindaco di Giarre, Nello Cantarella, né il sostituto procuratore di Catania, Giuseppe Foti, che anche in tempi più recenti ha parlato di “assurdità” di quella versione.

La versione data in pasto alla gente e persino a me, che cioè i due giovani fossero stati uccisi da un bambino di tredici anni, appare assurda – ha detto a L’Inkiesta nel quarantesimo anniversario del delitto, nel 2020 – Tutte le indagini sono rimaste inficiate da questo iniziale approccio sbagliato. Quale sia stato il motivo di questo percorso erroneo non posso dirlo con sicurezza. Posso dire con certezza che il percorso è stato preordinato al punto da individuare un bambino quale omicida, al punto da far ritenere un pretore di convincere anche a me. Ma, una volta fatte le indagini, non si poteva più tornare indietro: erano pregiudicati tutti gli elementi che potevano essere perseguiti. Nell’immediatezza si sarebbero dovuti sentire i parenti del ragazzo che si accusava, quelli dei due ragazzi, capire da quanto tempo le vittime si frequentavano. Tutte queste cose non furono fatte.

C’è molto, comunque, nel delitto di Giarre, che fa pensare alla pista del delitto d’onore, di un’onta da lavare con il sangue, a partire dalle differenti date incise sulle tombe dei due ragazzi, rinvenute 40 anni dopo la morte: 25 ottobre per Toni, un mese dopo, 26 novembre, per Giorgio. Perché? E poi la presenza ai funerali, duemila persone per il quindicenne Toni, nessuno per Giorgio.

A essere perplesso dalle due date sulle tombe è anche Paolo Patanè, ex presidente di Arcigay nazionale e direttore generale del Coordinamento dei Comuni Unesco Sicilia:

Aleggia su questa orrenda storia di morte e disprezzo, il retaggio ancestrale del delitto d’onore. Non mi stupirei se intorno a questo approccio si fosse costruito all’epoca un terrificante meccanismo di omertà e coperture complici, per trovare una soluzione comoda e sbrigativa a una vicenda scomoda e complicata. C’è infatti un mistero ulteriore che è emerso in queste ore. Finalmente sono state rinvenute le tombe dei due ragazzi e clamorosamente le date di morte differiscono e pesantemente. Ma perché questa differenza se insieme erano scomparsi il 17 e insieme trovati morti il 31 ottobre? E quella data del 25 ottobre? Scelta a caso o davvero qualcuno sapeva che l’esecuzione era avvenuta in quel giorno preciso? Credo che questa storia meriti il coraggio di una riapertura del caso giudiziario. Lo meritano Giorgio e Toni, morti uccisi senza risposte e senza giustizia.

Quello che appare abbastanza chiaro è che la morte di Giorgio e Toni sia stata frutto del pregiudizio omertoso, lo stesso che, ancora oggi, rende i giarresi restii a parlare della storia; vero è che da quel delitto nacque il movimento di liberazione omosessuale italiano: la prima e più diretta conseguenza fu la costituzione del primo collettivo del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) della Sicilia Orientale, che il 6 novembre 1980, a pochi giorni dalla scomparsa dei due, organizzò una grande manifestazione, grazie anche ai militanti Giuseppe Di Salvo e Pietro Montana; Bruno Di Donato, che a quella manifestazione partecipò, fu poi tra i fondatori del Circolo di Cultura Omosessuale romano Mario Mieli; ancora, il 9 dicembre 1980, su idea di don Marco Bisceglia, fu fondato a Palermo, sull’onda emotiva del delitto di Giarro, il primo Collettivo omosessuale dell’Arci come estensione della Commissione nazionale per i Diritti civili dell’associazione, realizzato da Gino Campanella e Massimo Milani, con la collaborazione, tra gli altri, di Franco Lo Vecchio, che coniò il nome Arci-Gay.

Da quell’episodio prende le mosse Il silenzio dei giorni, libro d’esordio di Rosa Maria Di Natale, uscito il 13 maggio per Ianeri Edizioni, nel quale il correttore di bozze Peppino Giunta, siciliano trasferitosi a Milano, racconta, in una sola notte, al capo della sua redazione quanto accaduto anni prima a Giramonte, a due ragazzi, Saverio (suo fratello maggiore) e Matteo, arrivato dalla grande città e troppo “rivoluzionario” per un paesino inchiodato alla sua mentalità patriarcale e profondamente maschiocentrica.

Il silenzio dei giorni

Il silenzio dei giorni

Peppino Giunta, siciliano trapiantato a Milano, racconta al capo della sua redazione una storia atroce di omofobia e omertà accaduta a Giramonte, paesino dell'isola in cui è cresciuto. Rosa Maria Di Natale, al primo romanzo, prende spunto dal delitto di Giarre che portò alla fondazione di Arcigay in Italia.
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Con l’autrice abbiamo fatto una chiacchierata per approfondire i temi del libro ma anche dell’attualità, viste anche le recenti problematiche legate al ddl Zan per i reati di omobitransfobia, segno tangibile che quella stessa cultura omofobica è ancora ben radicata in molte persone.

In realtà nel tuo libro ci sono vari temi, fra cui un po’ tutti gli stereotipi patriarcali per eccellenza: le donne che si dividono in sante o puttane, gli uomini che vengono misurati in base al denaro o in base alla virilità. Il tuo libro è ambientato tra gli anni ’60 e ’70, eppure certi cliché si possono ancora riscontrare oggi. Come mai tanta fatica ad abbandonare una mentalità di questo genere?

Perché anche il patriarcato cambia pelle. È mutevole e per questo sopravvive a se stesso. A Giramonte, il mio paesino immaginario ai piedi dell’Etna, nel 1972 una donna lascia il marito e solo per questo viene bollata come donnaccia. Su di lei si abbatte uno tsunami di storie inventate di ogni sorta. Oggi questo non accade più, ma se è una donna a rompere gli equilibri familiari, in una direzione qualunque, viene ancora criticata. Nel mio romanzo c’è anche un’altra donna, la commerciante più in gamba del paese che viene riconosciuta all’altezza perché ‘pensa come un uomo’. Ecco, questo è uno stereotipo che resiste nel tempo, tale e quale”.

Sul delitto di Giarre, da cui il libro trae spunto, vige ancora il mistero da oltre quarant’anni. Del resto, l’omertà era già stata ben analizzata da Sciascia ne Il giorno della civetta, anche se in quel caso si parlava di mafia, qua probabilmente di omofobia. Cosa può spingere le persone a preferire che un omicidio resti impunito piuttosto che essere tacciate di “tradimento”? È un problema culturale, di retaggi antichi, di paura…?

La storia de Il silenzio dei giorni mi è stata ispirata dall’omicidio di Giarre. È un fatto che mi è rimasto dentro e l’unico modo per distaccarmene è stato scrivere una storia che avesse dei legami con quel caso, pur essendo una vicenda del tutto inventata e per certi versi davvero molto diversa da quella realmente accaduta. Nel caso di Giarre la verità non venne a galla per la responsabilità di molti, e dunque anche per il silenzio di chi sapeva, per omertà. Nel caso dei miei protagonisti il silenzio ammanta le dinamiche familiari stesse, stende un velo sui sentimenti, anche tra fratelli. Il non detto genera mostri“.

I protagonisti del libro sono molti e diversi, ma su tutti ci sono loro, Matteo e Saverio. Da descrivere in due parole come…

Due adolescenti. Due giovani che hanno voglia di vivere la propria vita in piena libertà al pari dei coetanei. Nulla di più. Nulla di meno. 

Con la differenza che Matteo ha il coraggio di ‘bistrarsi gli occhi di nero’ e sembra sapere ciò che vuole mentre Saverio ha una sensibilità non comune che lo rende diverso prima di tutto per questo“. 

Ancora oggi discutiamo di ddl Zan e dell’importanza di punire le discriminazioni anche di natura sessuale, oltre a quelle, già previste dalla legge Mancino, per razza o religione. Perché non si è stati in grado di imparare da delitti come quello di Giarre per capire che la libertà personale, anche di esprimere la propria identità di genere o il proprio orientamento sessuale, è uno dei diritti basilari della vita? E perché ci si aspetta sempre un coming out da chi non rientra nei binari dell’eterosessualità?

La storia del delitto di Giarre è stata mantenuta in vita dai movimenti gay e ha segnato un passaggio storicamente fondamentale, ma non ha mai permeato la coscienza collettiva. Per anni è stata rimossa come sempre accade quando gli eventi pongono domande faticose.

E dalla rimozione non si impara niente. Sul perché ci si aspetta un coming out credo ci sia ancora una questione aperta. Credo che dipenda dai contesti. Libertà è anche non fare coming out e per i motivi più disparati. Di cosa ci si dovrebbe giustificare?”

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