Nel 1935, quando Cesare Pavese insegnava al Liceo D’Azeglio di Torino, tra i suoi allievi c’era anche Fernanda Pivano. Per la giovane era uno “straordinario privilegio” poterlo ascoltare mentre “leggeva Dante o Guido Guinizelli e li rendeva chiari come la luce del sole”. Le loro strade si incontrarono di nuovo qualche anno dopo, nel 1938, ma per entrambi tutto era cambiato: lui era appena tornato dal confino in Calabria, in seguito alle accuse di antifascismo, mentre lei studiava all’università .
Fu proprio Cesare Pavese a suggerirle di leggere alcuni autori americani, come Ernest Hemingway, Walt Whitman ed Edgar Lee Masters, e il prezioso consiglio rappresentò una svolta per la studentessa, che contribuì poi al successo della Beat Generation in Italia.
Come raccontato in un vecchio articolo del Corriere, la passione condivisa da entrambi per il mondo letterario si trasformò in amicizia e nell’infatuazione di Cesare Pavese, mai corrisposta. Le chiese di sposarlo due volte, nel 1940 e nel 1945, ma Fernanda era già innamorata di Ettore Sottsass, suo futuro marito. La ragazza rappresentava il suo ideale femminile, perché “preziosa in un essere ignorato”, come scrisse poi nel suo diario Il mestiere di vivere. Proprio dalle sue pagine più intime, scopriamo che l’aveva soprannominata il Gôgnin, che in piemontese significava faccino.
Il modo del Gôgnin di «parlare a vanvera» smettendo capricciosamente un argomento e riprendendolo poi a gusto, è diventato uno stile, e diventa suo amico chi lo accetta e lo adotta. Lei se ne compiace e se ne fa un vezzo. Potenza dello stile.
Fernanda era intelligente e vivace, diversa dalle “ragazze qualsiasi”. E, sotto molti aspetti, era anche il prototipo della nuova donna italiana, che si preparava a una nuova autonomia. “Non se l’intende coi Suoi, ma studiando e lavorando si prepara il modo di farsi un’indipendenza”, disse di lei, che non si decise mai a baciare, nonostante avesse tentato di farsi coraggio in alcuni suoi biglietti personali. Le dedicò però diverse poesie, inserite nella raccolta Lavorare stanca, come la luminosa Notturno.
La collina è notturna, nel cielo chiaro.
Vi s’inquadra il tuo capo, che muove appena
e accompagna quel cielo. Sei come una nube
intravista fra i rami. Ti ride negli occhi
la stranezza di un cielo che non è il tuo.La collina di terra e di foglie chiude
con la massa nera il tuo vivo guardare,
la tua bocca ha la piega di un dolce incavo
tra le coste lontane. Sembri giocare
alla grande collina e al chiarore del cielo:
per piacermi ripeti lo sfondo antico
e lo rendi più puro.Ma vivi altrove.
Il tuo tenero sangue si è fatto altrove.
Le parole che dici non hanno riscontro
con la scabra tristezza di questo cielo.
Tu non sei che una nube dolcissima, bianca
impigliata una notte fra i rami antichi.
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L'infanzia difficile di Cesare Pavese
Nato il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, Cesare Pavese apparteneva a una famiglia piuttosto agiata: suo padre era cancelliere del tribunale di Torino, città in cui aveva scelto di vivere, mentre la madre si prendeva cura della casa e dei due figli. Il dramma si insinuò fin da subito nella sua vita, in seguito alla morte del papà , stroncato da un tumore al cervello quando lui aveva solo sei anni. Nello stesso anno sua sorella Maria si ammalò di tifo e la famiglia tornò a vivere in campagna. Cesare si rinchiuse nel suo mondo, fatto di libri e natura. Timido e schivo, tendeva a isolarsi e allo stesso tempo aveva il desiderio disperato di essere amato.
Gli studi
Dopo gli studi dai Gesuiti, Pavese si iscrisse al Liceo D’Azeglio, una tappa fondamentale della sua formazione personale. Si lasciò trasportare dall’impegno politico, insieme ad altri giovani che non aderivano alle formazioni fasciste, ma si abbandonò anche ai primi amori. Come quello sfortunato (il primo dei tanti) per una ballerina di varietà , che attese invano sotto la pioggia, ottenendo in cambio solo una invalidante pleurite. Lo stesso episodio che ispirerà De Gregori per la sua canzone Alice: “…e Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina”.
Proprio in quegli anni iniziò a scrivere le sue prime poesie: decise poi di iscriversi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, dove si appassionò ai poeti Sinclair Lewis e Walt Whitman. In seguito alla laurea, conseguita nel 1930 nonostante il suo relatore si fosse opposto (considerava la tesi su Whitman non affine al clima fascista), iniziò a lavorare come traduttore dall’inglese e come insegnante.
L'amore pericoloso per Tina
Insieme alla passione per la letteratura americana, durante il periodo universitario Cesare Pavese si avvicinò a Battistina Pizzardo, detta Tina. Laureata in matematica, più grande di cinque anni e fervente antifascista, era una donna molto forte e coraggiosa. Fu un rapporto tormentato, che gli ispirò alcuni componimenti contenuti in Lavorare stanca, la prima raccolta di poesie pubblicata nel 1943, tra cui Incontro.
Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtÃ
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
Il fermo e il confino
Nel 1933 partecipò alla nascita della casa editrice Einaudi, fondata dal suo amico Giulio Einaudi. Un momento importante, interrotto bruscamente dalla realtà : per coprire la corrispondenza di Tina, impegnata nella lotta antifascista, nel 1935 Cesare Pavese venne condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Ne scontò solo uno, ma al suo ritorno scoprì che Tina si era sposata con un altro. Da quest’esperienza nacque il suo primo romanzo, Il Carcere, frutto di un periodo di grande crisi personale. Subito dopo il confino si innamorò di Fernanda Pivano, ma anche in questo caso il sentimento non era condiviso dalla giovane.
L'incontro con Constance Dowling
Durante la guerra, grazie alla frequentazione di altri intellettuali antifascisti torinesi, Pavese ritrovò la voglia di vivere e di scrivere, oltre che di partecipare alla vita politica. Venne chiamato alle armi, ma poi dimesso perché asmatico: provando orrore per la guerra e la violenza, decise di fuggire dagli orrori e rifugiarsi nelle colline del Monferrato, a casa della sorella. A fine conflitto, mentre si trovava a Roma per Einaudi, si innamorò di Bianca Garufi: un altro amore destinato a rivelarsi un fuoco di paglia, che portò solo alla pubblicazione di Fuoco grande, romanzo incompiuto scritto a quattro mani con la donna. Poi, all’inizio del 1950, fece l’incontro che segnò per sempre la sua vita: lei era Constance Dowling, una giovane attrice americana dagli occhi chiari.
Cesare Pavese e Constance Dowling
Come accaduto per tutti i suoi altri amori, anche Constance inizialmente si avvicinò a Pavese per via della sua grande intelligenza e cultura. Lui era già uno scrittore noto in Italia, mentre lei aveva appena recitato in Riso amaro e cercava il successo: fu solo un’illusione d’amore e pochi mesi dopo la Dowling tornò in America per tentare la strada di Hollywood. Cesare le dedicò il suo ultimo romanzo, La luna e i falò, uscito nella primavera del 1950.
Cesare Pavese con la sorella di Constance, Doris Dowling
Nel bel mezzo di un periodo di devastante tristezza per Pavese, nel giugno del 195o vinse il Premio Strega per La bella estate e si fece accompagnare alla premiazione dalla sorella dell’attrice, Doris Dowling. A Constance, Pavese dedicò alcune tra le sue più struggenti poesie, contenute nella raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
La grande depressione di Cesare Pavese
Quella stessa estate ebbe una breve storia con la giovanissima Romilda Bollati, sorella dell’editore Giulio Bollati, ma ciò non riuscì a cancellare il dolore che ancora stava provando. Così le scrisse una lettera d’addio:
Cara Pierina, ma tu, per quanto inaridita e quasi cinica, non sei alla fine della candela come me. Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che ero io a ventotto anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia, come avere il diabete o il cancro dei fumatori.
Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo? E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi e la fantasia pronta e decisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto.
Tutto questo te lo dico non per impietosirti – so che cosa vale la pietà , in questi casi – ma per chiarezza, perché tu non creda che quando avevo il broncio lo facessi per sport o per rendermi interessante. Sono ormai aldilà della politica. L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo – ma mi chiedo sovente che cosa ti consiglierei se fossi tuo fratello. Purtroppo non lo sono. Amore.
Il suicidio di Cesare Pavese
In preda a un rinnovato senso di abbandono, il 27 agosto del 1950 Pavese si tolse la vita in una camera dell’albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. Sul comodino della stanza, in un libro, lasciò scritto “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. Cesare Pavese”. Nel suo diario, tempo prima aveva scritto:
Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità , miseria, inermità , nulla.
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