Di tutte le battaglie sociali che stanno interessando questo particolare periodo storico, molto di più della quarta ondata del femminismo, di più del Black lives matter, di più delle lotte LGBTQIA*, ce ne è una che fatica enormemente a essere non solo accettata, ma persino compresa dall’opinione pubblica: la lotta alla grassofobia, o in termini più esterofili, la fat acceptance.

Un importante passo avanti per il nostro Paese è stata quindi la pubblicazione a opera di Tlon (con una prefazione di Belle di faccia) del primo saggio sul tema, ovvero Fat shame, della statunitense Amy Erdman Farrell, l’insegnante di Gender studies al Dickinson College di Carlisle, in Pennsylvania, esperta di studi culturali e femminismo.

Fat shame: Lo stigma del corpo grasso

Fat shame: Lo stigma del corpo grasso

Fat shame, dell'esperta di studi culturali e femminismo Amy Erdman Farrell, è il primo saggio sulla grassofobia a uscire in Italia, con il compito preciso di aprire una riflessione sul ruolo del corpo femminile e sulla profondità dei pregiudizi che lo riguardano.
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Abbiamo avuto l’opportunità di contattare l’autrice per chiederle di più riguardo a questo tema, per il quale vige ancora molta confusione. C’è chi parla di “promozione dell’obesità”, chi sente minacciate le proprie preferenze estetiche oppure chi racchiude tutto nel calderone della bodypositivity, la quale però ha avuto declinazioni mainstream che l’hanno portata spesso fuori dai binari rispetto agli intenti iniziali.

Una prova potrebbe essere la diffusione della parola curvy, da un lato spesso usata per indicare donne in realtà solo impercettibilmente fuori dal canone estetico, dall’altra usata come sinonimo caramelloso di un’altra parola, parola che si fa fatica a usare: grassa.

Ciò dovrebbe forse far intuire quale sia il tipo di approccio che, in quanto società, abbiamo per il grasso e le persone grasse. In una citazione riportata anche in Fat shame, Marylin Wann, autrice di FAT!SO? Because you don’t have to apologize for your size, scrive:

Esercitati a dire “grasso” fino a quando non suonerà come basso, alto, magro, giovane o vecchio.

È chiaro che siamo ancora lontani dal rendere la parola grasso neutrale come le “colleghe”, ma l’idea comune è quella che tutto ciò non sia strano, che sia normale. Dopotutto grasso non è bello, grasso è cattivo. È naturale rifuggire questa condizione, ma siamo sicuri che sia davvero così?

In realtà la grassofobia non è una naturale tendenza umana, e a dimostrarlo Amy Erdman Farrell fa un’attenta analisi storica. La “guerra al grasso” nasce in un preciso momento, quando?

La grassofobia emerge in modo potente a metà del XIX secolo, coincidente con l’industrializzazione, l’urbanizzazione e la crescita della borghesia e lo sviluppo delle idee “scientifiche” che “provavano” l’inferiorità delle donne e delle persone nere attraverso una mappatura di “sintomi d’inferiorità” del loro corpo. Il grasso era uno di questi. Il criminologo italiano Cesare Lombroso fu ad esempio molto entusiasta nel voler affermare che le cosce grosse delle donne dimostrassero la loro tendenza a diventare prostitute. Naturalmente, dato che la maggior parte dei corpi femminili tende ad accumulare grasso in quel punto, in realtà stava compiendo una generalizzazione facendo intendere che tutte le donne sarebbero potute diventare prostitute.

La grassofobia, perciò, a dispetto di quanto si crede, è un’invenzione. È un prodotto culturale niente affatto immutabile, ma che ha condizionato così tanto la nostra mentalità, da rendere il grasso un nemico o una malattia da sconfiggere, ma, come scrive lei stessa, in realtà è un problema tanto fisico quanto sociale. Ed è soprattutto su quest’ultimo che la fat acceptance vuole agire, ma come mai per le persone è così difficile distinguere questi due elementi?

Le culture occidentali hanno radicato così nel profondo l’idea che il grasso sia cattivo, da riuscire a offuscare il nostro pensiero su più livelli. Appare “naturale” e “normale” credere che essere grassi sia un sinonimo di inferiorità e che debba per forza essere il segno di un problema di salute. In realtà, l’odio per il grasso è un concetto strettamente legato alla supremazia bianca e al patriarcato. È un’idea così potente da aver creato lo stigma anche all’interno della medicina che la porta a interpretare male gli studi scientifici riguardanti il grasso.

Parliamo di medicina, allora. Dal momento in cui nasciamo tutti ci dicono che il grasso è sbagliato, persino i dottori, ma stando a quanto afferma lei stessa, anche la medicina non è libera dallo stigma del grasso, tanto da averne sovrastimato i rischi. I numeri dei decessi imputabili al grasso pare infatti essere molto gonfiato, inoltre gli studi in merito non considerano quanto sia difficile per una persona grassa rivolgersi a un medico, per colpa appunto dello stigma. Qualsiasi sia la causa del disturbo, spesso i medici tendono a ricondurla al grasso, solo per il peso del paziente, il che porta sempre più persone obese a rifuggire gli studi medici, con ovvie conseguenze negative. Come dovremmo comportarci quindi se persino le fonti autorevoli non sono esenti da questo stigma?

Questa è proprio una bella domanda! Vorrei davvero esortare le persona e informarsi riguardo al movimento Health at Every Size. Le persone grasse necessitano, sfortunatamente, di preparare i loro incontri con il personale medico attraverso informazioni alternative e devono riuscire a sfidare lo stigma del grasso ricercando dei professionisti che trattino le persone grasse con dignità e con informazioni accurate.

Oltre ai problemi medici puramente fisici, ci sono anche quelli di natura psicologica, che vengono collegati all’essere grassi. Cosa risponderebbe a chi pensa che i movimenti di fat acceptance rischiano di promuovere quei disturbi alimentari che considerano il cibo una compensazione per problemi psicologici?

Il cibo e i disturbi alimentari sono separati dalle dimensioni del corpo. Punto. Infatti, uno dei modi più probabili per sviluppare in un bambino dei disturbi alimentari è quello di incoraggiarlo a diete dimagranti. Le persone in cura per i disturbi alimentari sono infatti incoraggiate a un’alimentazione consapevole ma mai a essere ossessionati dal peso o dal cibo. Questa ossessione è esattamente quella che la società richiede alle persone grasse, perciò, in realtà, quello che si fa è incoraggiare le persone grasse a sviluppare un disturbo alimentare.

Chiarito il perché quindi sia così difficile distinguere l’aspetto culturale da quello fisico legato alla grassofobia, passiamo ora a parlare della categoria che subisce maggiormente le discriminazioni legate a questo stigma, infatti la grassofobia colpisce tutti i corpi, ma quelli femminili di più, come mai?

Un’altra bella domanda. Se comparati con i corpi di chi si identifica come uomo, i corpi di chi si identifica come donna hanno molto meno spazio per ingrassare. Per gli uomini è concesso maggiormente di “occupare spazio” tanto che si considerano grassi più tardi rispetto alle donne della stessa taglia. È uno straordinario strumento del patriarcato che insegna alle ragazze e alle donne che devono occupare la maggior parte delle loro risorse, energie, soldi e desiderio per diminuire le proprie dimensioni corporee.

A perpetrare lo stigma nei confronti del grasso subentra anche la rappresentazione che se ne fa. Nel libro c’è un esempio significativo, si parla di come la rappresentazione degli esseri umani nel film Pixar Wall-e sia molto offensiva per le persone grasse. Il grasso infatti è usato sia per ridicolizzarli sia come simbolo del declino umano. Cosa risponderebbe a coloro che affermano che però quella sarebbe una rappresentazione verosimile in quel contesto?

Quello che volevo dire nel libro è che ci sarebbero stati altri modi per rappresentare il fatto che gli umani non si muovessero più, avrebbero potuto ad esempio non avere più delle ossa funzionali per stare in piedi, o addirittura le gambe. Non per forza sarebbero dovuti essere grassi. Il grasso è stato utilizzato come scorciatoia per simboleggiare un’involuzione dei personaggi.

La grassofobia è un tipo di discriminazione così capillare e così sottile che in effetti è difficile riconoscerla. Così come la maggior parte degli spettatori ha riso di fronte agli umani goffi e paffuti di Wall-e che rotolavano uno sull’altro, così è difficile comprendere appieno le ragioni della fat acceptance. Si innesca un meccanismo di autodifesa nelle nostre menti che ci porta a rifiutare aprioristicamente ciò che rischia di mettere in crisi una verità che ci è stata insegnata come tale negli ultimi 150 anni. A rendere ancora più complicata la comprensione di questo tema c’è anche il fatto che, a differenza di altri “motivi discriminanti” come il genere, l’etnia e la sessualità, essere grassi sia considerata una scelta. Una scelta legata all’eccesso, per definizione un concetto negativo. Ritiene che questo contribuisca a rendere difficoltoso per le persone comprendere la discriminazione verso le persone grasse?

Sì, lo penso. C’è ancora la convinzione fuorviante che qualcuno possa decidere di essere grasso, ovvero che non abbia abbastanza volontà per non esserlo, ma è falso da tutti i punti di vista. Semplicemente le diete non funzionano. E, dato che essere grassi è considerato una scelta, diventa ciò che Erving Goffman chiamava uno “stigma colpevole”, peggiore di quello “innocente” (per esempio, un difetto congenito sarebbe uno stigma innocente).

A complicare ulteriormente le cose vi è il fatto che molte persone pensano che la fat acceptance significhi affermare che il “grasso è bello” in modo universale, ovvero che imponga a tutti di cambiare le proprie preferenze estetiche, ma questo non è il reale scopo del movimento. Inoltre, laddove si riesca a comprendere la portata delle discriminazioni che la grassofobia comporta, ciò non significa automaticamente che lo stigma che ci è stato insegnato sparisca del tutto. Come si può quindi conciliare la lotta contro la grassofobia e l’eventuale preferenza per i corpi magri?

Da una parte la fat acceptance riguarda la lotta contro la discriminazione delle persone grasse. Dall’altra parte, riguarda anche la bellezza. L’idea che “magro è bello” è stata spesso usata come giustificazione per imporre una “cultura della dieta” che ha bullizzato tutti, dal bimbo all’anziano grasso. Perciò anche cambiare l’idea globale che abbiamo della bellezza è importante, ma è difficile. Penso che da un lato occorra approfondire la conoscenza storica della grassofobia, per rendersi conto di quanto sia “culturale” e non una cosa naturale e inevitabile. Penso anche che abbiamo bisogno di cambiare la potente industria delle diete, che fattura milioni su milioni incrementando l’idea che il grasso sia cattivo sempre e comunque.

 

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