“Le storie aprono porte su stanze buie. Il linguaggio può trasportarci oltre l’orrore, verso un senso della vita che includa il rifiuto di arrendersi all’oscurità”. Nella postfazione del suo primo romanzo La bastarda della Carolina, uscito negli Stati Uniti nel 1992 e in Italia solo nel 2018, Dorothy Allison ha raccontato l’ostilità di molte persone che si erano riconosciute in quelle pagine.

La storia di quella bambina vittima di violenze e soprusi, cresciuta senza un padre nella Carolina degli anni Cinquanta, era stata percepita come un affresco crudo e senza speranza, tanto da essere persino vietato nelle scuole. E fu proprio l’incontro con una giovane insegnante, amareggiata e disillusa dopo la decisione del suo istituto di bloccare la lettura del libro, a far riflettere la scrittrice.

Il mio romanzo aveva turbato la quiete della scuola e la percezione del mondo come un luogo giusto e ragionevole. Questo era successo, e io provavo colpa, vergogna, tristezza. Sapevo quello che stavo facendo mentre scrivevo il romanzo, quello che speravo accadesse se qualcuno l’avesse letto, ma non avrei mai potuto immaginare il volto straziato di quella donna, né di quei ragazzi a cui lei aveva tentato di insegnare qualcosa. Pensavo che il mio romanzo sarebbe stato un catalizzatore di chiarezza e compassione, non un’istigazione alla rabbia e alla repressione.

La bastarda della Carolina

Per comprendere la donna dietro quel romanzo cult è importante leggere anche il suo memoir, Due o tre cose che so di sicuro, uscito nel 2019 sempre per i tipi di Minimum Fax. Abbandonata la forma romanzo, Dorothy Allison ha infatti deciso di raccontare tutta la verità. Sua e delle altre donne della sua famiglia, accomunate dallo stesso destino di povertà e desolazione.

Ecco la storia brutta. La bugia che ho raccontato a me stessa per anni, e che non ho scoperto fino in fondo se non quando ho cominciato a mettere sulla carta le mie storie, quando ho visto dove finivano le bugie e dove cominciavano i pezzi della mia vita distrutta.

Tutto ha inizio nel 1949 nella Carolina del Sud, uno degli stati più arretrati e conservatori degli Stati Uniti, dove l’autrice nasce da una ragazza madre, che lavora come cameriera e cuoca. A cinque anni comincia a subire abusi dal patrigno: la cosa va avanti per sette anni, fino a quando lei non decide di raccontarlo a un parente. Venuta a sapere delle violenze, sua madre intima al marito di lasciarla stare, ma non osa andare oltre, per tenere insieme la famiglia.

Due o tre cose che so di sicuro

L’uomo riprende ad abusare di Dorothy e la fa per altri cinque anni. La violenza fisica e mentale ha un impatto devastante sulla giovane, che scopre anche di aver contratto la gonorrea. La malattia le viene diagnosticata solo a vent’anni e ciò causa la sua impossibilità di avere figli.

La salvezza arriva dall’istruzione: grazie a una borsa di studio riesce a frequentare il college in Florida e lì si unisce al movimento femminista, grazie a cui trova il coraggio di scrivere. Intervistata da Lithub, Dorothy Allison ha spiegato però di aver iniziato molto prima a raccontare storie.

Mia mamma lavorava. Le mie zie lavoravano. Avevo forse 10 oppure 11 anni e dovevo restare con quegli stupidi dei miei cugini, che erano anche più grandi di me. Per evitare che si uccidessero tra di loro, raccontavo storie di paura.  Se riuscivo a farli restare a bocca aperta, almeno la smettevano di picchiarsi tra di loro per qualche minuto.

Dalle storie di paura, però, è poi passata all’orrore vero.

Quello che volevo davvero era che noi, e per noi intendo le persone che ho amato o temuto e con cui avevo un rapporto complicato, sembrassimo veri. Per farci sembrare veri dovevo scrivere in un linguaggio che non solo descrivesse magnificamente le persone che amavo, ma che facesse sentire a disagio il lettore. […] Mi piace e mi fa sentire potente sapere di essere una sopravvissuta, cresciuta povera, problematica, femminista, lesbica e con un accento del sud. Per me è come un riscatto. La resistenza al disprezzo ti rende davvero più forte.

 

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