"Donne tutte puttane": lo studio di 2 donne infiltrate nei gruppi Telegram | INTERVISTA

Nata da un gruppo WhatsApp che condivideva foto intime di donne senza il loro consenso, la ricerca di Silvia Semenzin e Lucia Bainotti ha passato in rassegna tutte le forme di condivisione non consensuale di materiale intimo (meglio nota come “revenge porn”) operata nel mondo digitale. E trova ora ampio spazio nel volume “Donne tutte puttane. Revenge porn e maschilità egemone”, edito recentemente da Durango Edizioni.

Ansia, depressione, voglia di sparire e, in circa la metà dei casi, pensieri suicidi. È quanto percepito dalle donne vittime di “revenge porn”: pratica aberrante mediante la quale materiali intimi e/o sessualmente espliciti vengono diffusi in gruppi privati (chat di WhatsApp, canali Telegram e affini) senza il consenso delle dirette interessate.

Un problema di cui, in Italia, si è iniziato a parlare con forza a partire dal 2016, in seguito al suicidio di Tiziana Cantone: ragazza 33enne che decise di togliersi la vita a causa della diffusione, da parte del suo ex fidanzato, di un video che la ritraeva mentre gli praticava sesso orale.

In questo contesto, si tratta forse di “vendetta”, ma nella maggior parte dei casi la condivisione non consensuale di materiale intimo (questa l’espressione più idonea) non è il risultato di una “revenge”, bensì l’espressione di un machismo goliardico, abusante e violento che conduce gli uomini a considerare la donna alla stregua di un mero oggetto sessuale, mercificandone parti del corpo mediante fotografie, video o intimità rubate.

Conosce a fondo il tema Silvia Semenzin, ricercatrice postdoc in Sociologia Digitale all’Università Complutense di Madrid e docente in “New Media & Digital Culture” all’Università di Amsterdam, autrice, insieme alla ricercatrice Lucia Bainotti, di Donne tutte puttane. Revenge porn e maschilità egemone.

Il volume, edito recentemente da Durango Edizioni, intende, infatti, passare in rassegna le molteplici forme di disumanizzazione della donna e del suo corpo in ambito digitale, indagandone declinazioni, derive e conseguenze.

Ne abbiamo parlato a fondo proprio con una delle due fautrici della ricerca, Silvia Semenzin: figura fondamentale del dibattito in Italia grazie alla campagna di cui fu strenua promotrice, #intimitàviolata, che nel 2019 ha condotto al riconoscimento del reato di condivisione non consensuale di materiale intimo (mediaticamente definito, appunto, “revenge porn”) mediante l’emendamento al disegno di legge “Codice rosso” sulla violenza contro le donne.

Donne tutte puttane.

Donne tutte puttane.

Frutto di un atteggiamento goliardico, violento e usurpatore, il "revenge porn", meglio definito come "condivisione non consensuale di materiale intimo", attua una vera e propria disumanizzazione della donna e del suo corpo, considerato alla stregua di un oggetto sessuale da diffondere, denigrare, mercificare. Alla base, la maschilità egemone, di cui Silvia Semenzin e Lucia Bainotti indagano forme e conseguenze.
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Vorrei partire dal titolo, che a prima vista può sembrare quasi una provocazione. Un po’ come quei movimenti artistici o di attivisti che hanno trasformato un termine denigratorio in un nome da rivendicare (le Slutwalk, per esempio). Come mai la scelta di utilizzare questo titolo? E a quale esigenza risponde il testo, in generale?

“Il titolo, in effetti, è una provocazione. E deriva da un gruppo WhatsApp, “Donne tutte puttane”, appunto, in cui venivano diffuse, anni fa, foto di ragazze senza il loro consenso. La scelta di mantenerlo si correla, quindi, alla decisione di partire da dove tutto è iniziato, l’origine del nostro percorso e della nostra rabbia. Quando abbiamo cominciato, siamo partite da qui, e al tempo si parlava ancora poco dell’esistenza di questi gruppi e, soprattutto, dei loro nomi.

Da un lato, perciò, è una scelta personale, dall’altro, invece, una sorta di riappropriazione del termine: se “puttana” identifica una donna libera di scegliere la propria sessualità, di provare piacere, di mostrarsi e di fare ciò che vuole con il proprio corpo, allora noi ci riappropriamo di questo sostantivo. Siamo tutte puttane perché siamo libere – sebbene, nel corso del libro, cerchiamo di destrutturare questa dicotomia tra sante e puttane e di andare oltre questa categorizzazione.”

Il gruppo WhatsApp citato è stato il tuo primo approccio diretto con il revenge porn. Che cosa era successo? E come sei venuta a conoscenza della sua esistenza?

“Per scelta, sia mia sia di Lucia, non abbiamo mai voluto scendere troppo nei particolari, perché sì, “il personale è politico”, ma quando si va troppo nel personale si rischia di perdere un po’ il focus sull’argomento. In questo caso, ciò che è successo è che circa quattro anni fa ho scoperto che alcuni conoscenti del mio paese avessero un gruppo, “Donne tutte puttane”, in cui i componenti si scambiavano foto di donne senza il consenso di queste ultime. A dirmelo è stato proprio uno dei suoi membri, che ha giustificato i loro comportamenti al pari di atti di “goliardia”.”

Che cosa facevano?

“Molte cose: piazzavano le videocamere di nascosto, registravano le voci delle ragazze con i messaggi vocali di WhatsApp quando erano a letto, le fotografavano e simili. Per loro era, quindi, un “classico” andare a letto con una donna e registrarla, per poi condividere gli scatti e gli audio rubati con il gruppo: quasi come se questo gesto potesse avvalorare il loro essere maschi, “machi”.

Tra le ragazze ritratte, c’erano anche persone che conoscevo, oltre a fidanzate di alcuni componenti. Non c’era distinzione: non importava che fossero le compagne o delle “one night stand”, per loro l’essere donna equivaleva a essere una puttana. E così ogni donna veniva trattata.”

Come hai reagito?

“Inizialmente, ci ho pensato un po’ su e mi sono confrontata con alcune persone. Ai tempi, però, mi stavo già interessando di studi di genere ed ero abbastanza sensibilizzata al riguardo, così, complice anche il mio carattere, sono esplosa, e mi sono detta che non si poteva considerare “normale” un comportamento del genere, soprattutto perché, in queste storie, c’è sempre molto dolore. E dato che nessuno stava dicendo alcunché, l’ho fatto io, e ho “urlato” a modo mio: ho scritto un post su Facebook di denuncia e ho raccontato del gruppo e di ciò che vi circolava. A quel punto, mi sono resa conto che molte persone lo giustificavano (della serie: «Se non volete finire in questi gruppi, non fatevi certe foto in costume») e che era diffusa un’idea in base alla quale una donna che si mostra lo fa per lo sguardo maschile. Di qui, l’equazione per cui è “legittimo” prendere le foto e inoltrarle in questi gruppi. Così è, poi, iniziata anche la ricerca svolta insieme a Lucia.”

Mi ha colpito molto un dato: il volume non è solo conseguenza delle vostre ricerche e dei vostri studi, ma è anche il risultato dei tre mesi che avete trascorso da infiltrate nei canali e nei gruppi Telegram, nel 2019. Quali sono state le regolarità che avete riscontrato mediante questa osservazione diretta del fenomeno? Esistono “profili” peculiari?

“In primo luogo, direi il forte ricorso a un linguaggio misogino. Anche i gruppi su Telegram, infatti, hanno titoli che richiamano il fatto che le donne siano tutte tr**e (quali “Le cag*e”, “Le cagn*ette” o simili). E poi, i tipi di pratiche: registrare di nascosto, hackerare, diffondere foto senza consenso. Ciò che cambia nei gruppi di Telegram è, sostanzialmente, la grandezza, che fa davvero impressione: al loro interno, appunto, vi sono tipologie di uomini molto diverse. Da uomini privi di capacità riflessiva, che si eccitano in questo modo, ai membri della cosiddetta “manosphere”, che odiano le donne e le femministe e le vogliono punire, fino agli stupratori, ai pedofili e ai ragazzini di 12 anni curiosi che vogliono sapere che cosa sia il sesso e finiscono in questi gruppi.”

Si possono suddividere i partecipanti in percentuali (più incel, più ragazzini…)?

“Purtroppo non possiamo farlo, perché su Telegram è impossibile svolgere un’analisi quantitativa: al momento dell’iscrizione, infatti, la piattaforma non richiede alcun tipo di dato personale. Ci sono, però, alcuni ricercatori (come Matteo Botto) che stanno cercando di fare luce su queste manosphere, sebbene sia complicato senza violare le norme di privacy e manchino i dati. Diciamo che viviamo in un ambiente complesso.”

Voi come avete fatto a introdurvi in questi canali?

“Si tratta di una metodologia che siamo riuscite a giustificare, a livello etico e accademico. Quando bisogna compiere una ricerca di questo tipo su internet, infatti, se l’oggetto di studio non è accessibile in alcun modo, identificandosi come ricercatori, è legittimo farlo sotto copertura. Avevamo, quindi, un account fake, ma non ci siamo mai dovute “fingere” qualcun altro: nessuno ci ha mai chiesto nulla, e questa cosa la dice lunga anche sui controlli che si effettuano in questo campo. Siamo, perciò, entrate grazie a una piattaforma pornografica famosa per avere sezioni di revenge porn, cui abbiamo chiesto di poter accedere: così, abbiamo raccolto un campione di circa 50 gruppi.”

Il volume si muove principalmente su due assi, il primo dei quali è, appunto, il revenge porn. Come hai dichiarato più volte, tuttavia, l’espressione non è propriamente corretta. Puoi ricordarci il perché?

“Certo. Come spieghiamo anche nel testo, preferiamo parlare di pratiche di “condivisione non consensuale di materiale intimo” (e non sessuale, perché gli scatti non sono necessariamente espliciti, ma possono essere anche foto in mutande o in costume, o solo del viso). Questo ci aiuta a non ridurre la pratica all’idea della vendetta – come è stato fatto, invece, a livello legale –, soprattutto perché l’80% delle donne che denuncia non riceve tutela, dato che la legge richiede di mostrare il dolo specifico: in questo caso, la “vendetta”.

Questo è un problema, perché la matrice non è la revenge, bensì fare gruppo tra gli uomini, scherzare, corroborare il proprio machismo. Con la logica della vendetta, inoltre, non si considerano tutti gli altri casi di condivisione non consensuale, dal deep fake porn agli stupri digitali.

E, soprattutto, l’espressione “revenge porn” apre la strada al victim blaming. E, altra cosa importante: non si tratta di materiale porno.”

Quali sono le altre diramazioni della condivisione non consensuale?

“Il grande nucleo è costituito dalle foto di nudo, le più ricercate. Intorno, però, vi orbitano tante altre tipologie. Tra queste vi è, per esempio, il creepshot: la foto, o il video, di una parte specifica di una donna (la foto delle mutande che escono dal pantalone, la scollatura, scatti del sedere mentre si cammina). A queste si aggiungono le foto già pubblicate sui social media (in costume, in minigonna o simili), considerate da “tr*ia” dai membri dei vari gruppi: questa condivisione si basa sull’idea che, dato che lo scatto è già pubblico, allora si può utilizzare a proprio piacimento. È, però, un assunto sbagliatissimo, perché anche questo atto è illegale.

L’ultima frontiera della violenza contro le donne è, però, il deep fake porn: un problema gigantesco su Telegram, che si avvale di bot integrati, facilissimi da usare, che prendono foto di donne anche vestite trasformandole in scatti di nudo. Le donne che subiscono questo oltraggio hanno le medesime conseguenze di quelle soggette al revenge porn. Ed è preoccupante, perché basta anche solo caricare una foto su LinkedIn per ritrovarsi vittime: il fattore scatenante è proprio solo l’essere donna.”

Secondo te, secondo voi, qual è, a oggi, l’espediente più immediato ed efficace per contrastare il fenomeno? Considerando anche il fatto che, nel mondo contemporaneo, sia necessaria non solo un’educazione sessuale ed emotiva, ma anche, e in taluni casi soprattutto, digitale.

“Penso che, anche in questo caso, ci siano almeno due binari: da un lato, lavorare ancora di più sulla legge, perché allo stato attuale non è sufficiente, e servono delle risposte non solo nazionali, ma anche transnazionali, che comprendano il fenomeno e lo spieghino, altrimenti non si può legiferare sopra. Dall’altro, invece, come hai già detto tu benissimo, vi è il ruolo dell’educazione: sono profondamente convinta che sia necessaria un’educazione sessuale che, in Italia, non si vuole fare, perché, come ha dichiarato anche Giorgia Meloni qualche giorno fa, «i bambini non devono assolutamente sentir parlare di sesso troppo presto». Come se poi andare su Telegram possa essere la soluzione.
A essa si affianca, inoltre, l’educazione digitale, che non deve consistere solo nel “Ti insegno a usare il computer”, ma che deve prevedere anche una spiegazione della tecnologia, di che cosa si sta usando, di quali politiche ci siano dietro il telefono e le piattaforme utilizzate e che cosa sa un cellulare di noi. Un aspetto assolutamente assente, al momento.”

A proposito di divulgazione: la tua attività si svolge spesso nelle scuole. Quando i ragazzi (o gli insegnanti) coinvolti iniziano a ricorrere alla cantilena del “Boys will be boys” o “Sono cose da maschi”, che cosa rispondi, tu? Qual è la risposta più adeguata, in questi casi, per far capire che la lotta al patriarcato interessa tutti?

“Io credo che, in queste circostanze, sia opportuno armarsi di pazienza e spiegare le cose con calma, dall’inizio alla fine. Dopo una lezione intera sulla problematica, mi è successo più volte di sentirmi dire che sono problemi che non riguardano solo le donne o che la violenza di genere si attua anche contro gli uomini: a questo punto, ciò che secondo me è molto efficace è far ragionare i ragazzi sugli stereotipi che possono essere tossici anche per loro.”

Il secondo asse del volume riguarda proprio la “maschilità egemone”: che cos’è e come si collega al revenge porn?

“Abbiamo voluto usare questa definizione, e non mascolinità tossica, perché racchiude questa idea di dominio, di egemonia sull’altro, in questo caso su chi è diverso dalla “neutralità”, ossia l’uomo bianco, maschio, etero. Si tratta, allora, di quell’insieme di atteggiamenti di potere e di forza che si riversano verso categorie che un uomo eterosessuale ritiene diverse dal modello del machismo, e che, per molti, è una vera gabbia.

Il ragionamento che abbiamo condotto sulla maschilità si rivolge, quindi, ai motivi per cui questa sia la causa principale che conduce gli uomini a incontrarsi su internet, utilizzando le donne alla stregua di una moneta di scambio, figurine che li aiutano a costruire questa identità di genere violenta cui, però, sentono di dover aderire.

Si parla molto poco di maschile, e si dà per scontato che gli uomini siano così: abbiamo, perciò, voluto affrontare il discorso proprio per invitare a smetterla di pensarla in questo modo.”

Come reagiscono i ragazzi agli stereotipi di genere cui fai ricorso per mostrare loro le “gabbie” dei pregiudizi?

“Negli ultimi due mesi ho tenuto delle lezioni di cui sono rimasta molto felice, perché ho ricevuto tante belle risposte. Molti ragazzi che partecipavano – forse perché già sensibilizzati dagli incontri precedenti –, per esempio, mi hanno raccontato alcuni casi di discriminazione che hanno subito, perché magari hanno dato un bacio sulla guancia a un amico o perché giocano a pallavolo, uno sport tradizionalmente “femminile”. Secondo me, nel momento in cui si cerca di far aprire loro gli occhi sul fatto che spesso non stanno scegliendo in prima persona che cosa essere e quale narrativa adottare, in un certo senso li si libera. Poi, c’è sempre chi continua a rispecchiarsi negli stereotipi, ma è importante che questi non siano violenti e sempre “scelti”.”

Noti più apertura, da parte delle nuove generazioni?

“Sì. Quello che noto, e te lo dico con il cuore, è che i ragazzi, soprattutto liceali, vogliono parlare di questi argomenti, hanno bisogno di affrontare le tematiche correlate a sessualità, relazioni, digitale e tecnologia, perché nessuno gliele spiega. E quando qualcuno lo fa, nasce un bel dibattito, qualsiasi direzione esso prenda.”

A che punto è la legge? Quali sono i dati raccolti in questi primi due anni di Codice rosso?

“Il dato più rilevante è quello relativo alle denunce: sebbene non sappia il numero corretto, so che sono state circa 600, quindi un numero ingente. Il dato che, secondo me, è, però, davvero importante è il fatto – già menzionato – che l’80% delle denunce cada nel vuoto. La legge non è finita, e, anzi, ho molta paura, soprattutto perché ho notato che, dopo la campagna #intimitàviolata, il discorso pubblico, il giornalismo, i media si sono come “seduti” e hanno considerato il problema risolto. Peccato che, un anno dopo, durante la pandemia i gruppi di Telegram abbiano visto una crescita esponenziale. Sintomo che la legge, purtroppo, non sia un deterrente.”

Come dovrebbe essere una legge ad hoc? E quali caratteristiche dovrebbe contenere?

“La legge va ampliata in un testo di legge integro che prenda in considerazione la violenza sessuale digitale nel complesso, e non solo il revenge porn.
Dovrebbe, in primo luogo, riconoscere tutte le pratiche che ora non sono contemplate (dal doxing alla shit storm, fino allo stupro digitale, al deep fake e affini). Dovrebbe, poi, offrire tutela legale e psicologica alle vittime, e, infine, obbligare lo Stato a garantire l’educazione digitale, facendo anche in modo che la Polizia Postale possa avere un corpo destinato alle denunce online. Insomma, un dispiego di forze che, finora, non si è mai visto.”

Ci sono speranze che possa cambiare qualcosa?

“Deve. Non so quanto tempo ancora sarà impiegato, ma sono abbastanza certa che non mi arrenderò così, come non lo faranno tutte le altre persone che hanno a cuore questo argomento. Serve semplicemente che le donne si facciano sentire di più. E credo che, una volta concluso questo periodo, il dibattito esploderà di nuovo, perché non è un problema solo italiano, ma globale. La strada, secondo me, è spianata.”

Quali sono gli effetti principali delle vittime di revenge porn?

“Il 90% e più prova ansia e depressione, attacchi di panico, voglia di sparire da internet (quindi autocensura) e il 51% pensa al suicidio, come tentativo di uscita. Questo è un dato angosciante, perché fa comprendere come la vergogna sia così insopportabile da pensare ad atti estremi. E poi ci sono conseguenze più sociali, tra cui la perdita del lavoro, la voglia di cambiare scuola, il rifiuto della famiglia, la perdita degli amici. La colpa: essere viste nude o in atteggiamenti sessuali. È una follia.”

E per quanto riguarda la comunità LGBTQI+? Come vi si riversa il revenge porn?

“Anche qui, i dati sono pochi. Ma ce n’è uno interessante: negli studi che abbiamo raccolto, infatti, abbiamo constatato che, quando le vittime sono uomini, sembra che i carnefici siano, a loro volta, uomini, in tal caso gay. Di nuovo, si tratta di maschilità: non importa se si è all’interno di una comunità che metta in discussione l’identità di genere, perché anche in questo caso, a volte, si continua a rispecchiarsi in quel modello, al fine di affrancarsi dall’idea di “gay effeminato”. Emblema, quindi, di un’omofobia particolarmente interiorizzata.”

Perché i dati sono ancora così pochi?

“Perché si tratta di una tematica esplosa di recente, e anche in Accademia non vi sono molte ricerche su sessualità, porno e simili: fino a poco tempo fa, non se ne voleva proprio parlare. Sono campi di indagine nuovi, strettamente connessi anche allo sviluppo del digitale.

E poi, naturalmente, i dati mancano perché molte vittime non vogliono parlare: lo stigma è molto profondo.”

Hai citato la pandemia: che cosa è cambiato, in questo ultimo anno?

“I gruppi sono aumentati moltissimo. L’associazione Permesso negato ha rivelato, per esempio, che i membri delle chat di Telegram sono quasi duplicati, con oltre 100.000 utenti. E i gruppi, in generale, sono circa il 70% in più.”

La censura può essere una soluzione?

“No, secondo me non lo è mai. Lo sono l’educazione e la prevenzione: la censura porta solo ad avere voglia di andare in altri luoghi. Non cambia niente finché non muta la mentalità di fondo.”

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