"Un femminismo a pois per le donne che non ce la fanno più". INTERVISTA A ROBERTA MARASCO

Quante sono le donne che per ritrovare se stesse restano in macchina qualche minuto in più, si chiudono in bagno, fanno la strada più lunga per tornare a casa? Quante sono le donne che pur volendo bene alle persone che hanno attorno, ai figli e ai compagni, ogni tanto sentono di dover scappare da loro? Questa è violenza. Scomparire dalla tua vita. Dover restare da sola per essere se stessa è una violenza. Sentire che la società e lo spazio pubblico ti fanno posto solo in funzione delle necessità di qualcun altro o di qualcos’altro è violenza. In questo senso i pois sono uno strumento di cambiamento, perché rendono quella violenza oggettiva, indiscutibile.

La violenza di genere non è un fenomeno sporadico, ma una piaga sistemica che si manifesta quotidianamente sotto varie forme, la cui punta è purtroppo rappresentata dal femminicidio.

Alla base, tuttavia, vi è il medesimo problema, ovvero il rapporto impari tra i generi e le costanti discriminazioni subite dalle donne a livello lavorativo e personale.

Ma che succederebbe se le donne vittime di pregiudizi, stigmatizzate, abusate, facessero davvero sentire la propria voce, o meglio se succedesse qualcosa per il cui il mondo sarebbe gioco forza obbligato ad accorgersi di loro?

È quello che immagina la traduttrice e scrittrice Roberta Marasco, che nel suo nuovo libro, Donne a pois, racconta di Marta, Luisa, Emma, Rachele, donne comuni, che potrebbero essere le nostre vicine, sorelle amiche, improvvisamente cosparse di pois viola, motivo per cui le persone non possono più ignorarle.

Donne a pois

Donne a pois

Marta resta in macchina qualche minuto in più dopo avere fatto la spesa. Luisa si sveglia prima di tutti e si chiude in bagno. Rachele arriva presto in palestra. Emma ha 27 anni, due figli piccoli, il dubbio di essere diventata mamma troppo giovane, un compagno con cui ha imparato a sognare e la paura che il prezzo da pagare siano proprio i sogni che li hanno fatti incontrare. Quattro donne molto diverse, che un giorno scoprono di avere qualcosa in comune: stanno scomparendo dalla propria vita. E forse continuerebbero a scomparire, se alcuni misteriosi pois viola non costringessero il mondo ad accorgersi di loro.
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Con l’autrice, italiana expat a Barcellona, abbiamo parlato in un’intervista non solo del suo libro, ma anche del progetto Rosapercaso, il blog che raccoglie storie diverse di donne e che è servito come fonte di ispirazione per Donne a pois, e in generale dei temi strettamente legati al femminile e al femminismo.

Viviamo un contesto dove, purtroppo, la violenza di genere è all’ordine del giorno, e al posto dei pois viola molto spesso invece le donne scelgono il silenzio, per paura o perché “culturalmente” ci è stato insegnato questo. Da dove partire allora per smuovere le coscienze, femminili in primis? Da una rieducazione delle donne, dall’insegnamento alle giovani generazioni…?

Il mio strumento sono sempre state le storie e credo che, fra i tanti approcci possibili e necessari (educazione, politica, ridistribuzione delle risorse e del potere), sia fondamentale anche cambiare il racconto collettivo, tutti quei messaggi che ci arrivano dalla stampa, dai social, dalla televisione… Bisogna iniziare a sanzionarli, a mostrare i limiti entro cui viene racchiuso il femminile, la gabbia che ci viene costruita attorno
da titoli che ci definiscono solo in funzione di qualcun altro o come origine di ogni colpa. Servirebbe anche a rendere evidente la necessità di una formazione su questi temi per chiunque si occupi di comunicazione.

Io la chiamo “guerriglia a pois”: se riempiamo di pois viola i meme e i reel che nascondono una violenza invisibile, come quelli che esaltano le mamme multitasking o le donne che non si riposano mai, per fare solo due esempi fra i tanti possibili, allora quella violenza smette di essere invisibile. E secondo me è un ottimo punto di partenza“.

Sul tuo blog Rosapercaso scrivi: ” Ci hanno cresciute con l’idea che non faremo mai abbastanza, che il nostro obiettivo non è fermarci, ma riuscire a fare esattamente il contrario, non fermarci mai. Moltiplicare la nostra fatica e farcela bastare. Il riposo delle donne è mal visto, è quasi sgradevole, soprattutto per le altre donne. Sa di vizio, di pigrizia, di fallimento, è una dimostrazione di inadeguatezza, non un modo di prendersi cura di sé”. Perché la società è iper giudicante nei confronti delle donne, qualunque scelta prendano? Se di avere figli o non averne, se di lavorare o stare a casa, se sposarsi o no, e potremmo andare avanti all’infinito.

La nostra società ha bisogno di controllare le donne e giudicarle, come dici giustamente tu, è un modo per tenerle al loro posto. Quando esaltiamo la forza delle donne, la loro resistenza, la loro capacità di accudire, in realtà le stiamo costringendo all’interno di confini che altri hanno deciso per loro. Non solo, diamo anche per scontato che il valore delle donne si misuri sempre e solo a partire dallo sguardo e dal giudizio altrui.

Il racconto della donna che non si ferma mai, della donna multitasking, che ‘ha una marcia in più’, che non ha bisogno di dormire, che non si siede fino a sera, che si nutre esclusivamente del piacere di vedere soddisfatti i bisogni altrui, rientra all’interno di questo discorso ed è al servizio di un sistema di potere da cui le donne sono escluse. Viene spacciato per complimento, per sguardo ammirato, ma se la società desse davvero alle donne il valore e l’importanza che finge di dare, allora si preoccuperebbe anche per la loro salute, cosa che non fa, ignorando le malattie femminili, o per la loro sopravvivenza, cosa che non fa, ignorando i femminicidi e le richieste di diritti. Al contrario, quello che fa è nascondere sotto il tappeto tutti i modi in cui paghiamo il prezzo di ‘quella marcia in più’, malattie comprese.

Le donne insomma fanno il ‘lavoro sporco’, in un sistema di potere maschile che ignora allegramente tutto ciò che riguarda la cura e
preferisce guardare dall’altra parte e fingere che non sia un problema“.

Tutti quei pregiudizi sopra citati sono poi alla base di varie concezioni che abbiamo interiorizzato e che puntualmente utilizziamo: “vera donna, donna perfetta, donna di casa, donna in carriera”. Chi si discosta dai bias, per un motivo o per l’altro, spesso vive pensando di essere dalla parte del “torto”. Come si cambia la percezione, anche soggettiva, che spesso la società ci impone e finalmente si mostrano i pois viola per far sentire la nostra voce?

“È incredibile quanto male facciano quei pregiudizi e quanto poco se ne parli. Psicologicamente può essere devastante. Convivere con la sensazione di essere sbagliata, di non essere abbastanza, di non essere all’altezza. Siamo spinte ai margini della società e se non ci basta, se scalpitiamo irrequiete, ci convincono che quell’irrequietezza sia un problema nostro, che sia proprio quella la ragione per cui dobbiamo restare ai margini, e non il segno di una violenza subita.
I pois viola servono a rendere visibile questa violenza. Quante sono le donne che per ritrovare se stesse restano in macchina qualche minuto in più, si chiudono in bagno, fanno la strada più lunga per tornare a casa? Quante sono le donne che pur volendo bene alle persone che hanno attorno, ai figli e ai compagni, ogni tanto sentono di dover scappare da loro? Questa è violenza. Scomparire dalla tua vita. Dover restare da sola per essere se stessa è una violenza. Sentire che la società e lo spazio pubblico ti fanno posto solo in funzione delle necessità di qualcun altro o di qualcos’altro è violenza. In questo senso i pois sono uno strumento di cambiamento, perché rendono quella violenza oggettiva, indiscutibile.

Se hai la faccia a pois, non sei tu che esageri e ti lamenti troppo: c’è un problema che nessuno può più sminuire, e quel problema va affrontato. Per cambiare allora ci serve la fiducia nei nostri limiti e nella nostra voce, e la certezza che il problema non siamo noi, ma un mondo che non ci assomiglia abbastanza. Se non ce la facciamo, non sempre dobbiamo stringere i denti e tenere duro, possiamo pretendere che la società sia costruita attorno ai nostri diritti e ai nostri bisogni. Sapere di averne il diritto può sembrare un piccolo passo, ma cambia tutto“.

Marasco ci racconta poi di Rosapercaso, progetto nato quasi dieci anni, dice, per “riempire il vuoto che notavo fra la mia voce e il racconto che mi circondava. Mi sentivo femminista, ma scrivevo romanzi d’amore; ero mamma, ma non sempre avevo voglia di esserlo; mi sentivo inadeguata, ma non volevo essere adeguata… Poi a poco a poco è diventato un contenitore di storie, di voci. Il potere delle storie delle donne è incredibile, trasforma la vita di chi le scrive e di chi le legge, dà un nome alle cose, ti fa sentire meno sola, colloca le tue fragilità su un orizzonte collettivo dove improvvisamente cambiano di senso e diventano diritti negati“. E spiega: “In un certo senso, Rosapercaso mi accompagna nelle mie difficoltà, nei miei momenti di crisi. In questi mesi sentivo di essere vicina al punto di rottura, senza capire perché, senza una ragione concreta, avevo solo una gran voglia di urlare. E così mi sono chiesta che cosa sarebbe cambiato se non solo avessi urlato, ma se avessi smesso di nascondere agli altri e a me stessa come mi sentivo, se fosse diventato impossibile ignorarlo, per tutti. E così è nata l’idea delle donne a pois“.

Da expat noti una percezione diversa del femminile e del ruolo delle donne all’estero o la cultura della donna che si deve fare carico di famiglia, figli, lavoro e casa è piuttosto condivisa anche al di fuori dei confini italiani?

Vivo in Spagna, vicino a Barcellona, quindi posso parlare della realtà catalana, che è molto diversa da quella andalusa, per esempio, o da quella di Madrid. Quanto alla distribuzione del carico domestico, non mi sembra che ci siano grandi differenze. La Spagna però ha fatto, o dovuto fare, passi da gigante in pochi anni, con la fine della dittatura franchista. Basta pensare che fino alla riforma del codice civile, nel 1975, le donne passavano sostanzialmente dalla tutela del padre a quella del marito. Sotto la dittatura, una donna sposata non poteva aprire un conto in banca o firmare un contratto di compravendita o di lavoro senza il permesso del marito. Con la fine del franchismo, quindi, il femminismo ha avuto un ruolo fondamentale nelle trasformazioni sociali e questo si nota anche a livello istituzionale.

Le istituzioni sono molto più esplicite a livello comunicativo sui diritti delle donne e questo fa sì che gli spazi pubblici ne portino il segno in modo più deciso. I cartelloni delle feste di paese, per esempio, recitano a grandi lettere che ‘solo sì è sì’. Questo non impedisce che la violenza continui a succedere, e non significa neanche che le istituzioni appoggino sempre le donne, ma se non altro si manda un messaggio più forte e inequivocabile. Si dà per scontato, almeno a livello comunicativo e all’interno di una certa parte politica, che quel messaggio debba essere collettivo, condiviso, che non sia appannaggio di quattro femministe esaltate. E questo in Italia mi sembra che non sia ancora successo“.

Nei tuoi libri hai parlato a generazioni diverse di donne, dalle adolescenti, con Fazzoletti rossi, in cui il tema centrale era un altro argomento tabù, le mestruazioni, fino alle protagoniste di Donne a pois, che potrebbero essere le vicine di casa, le sorelle, le amiche, se non anche noi stesse. Hai intenzione, o pensi di poter mai scrivere, qualcosa che invece sia rivolto agli uomini? Il loro coinvolgimento è fondamentale per cambiare le cose. Non credi che sia ok parlare alle donne e per le donne, ma non si dovrebbe parlare in primis agli uomini?

Sì, ne sono convinta. Ma sono convinta anche che dovrebbero essere gli uomini a farlo, a parlarsi fra di loro, a mostrare che davvero ‘non sono tutti così’. Una cosa è cercare il dialogo e il confronto, che sono importanti e arricchiscono il femminismo, un’altra è addossare alle donne un compito in più, come quello di educare, spiegare, convincere. I libri ci sono, così come i profili social, le pagine web, gli spazi di
approfondimento; se un uomo vuole capire davvero il femminismo ha tutti gli strumenti per farlo a portata di mano. A Rosapercaso arrivano anche voci maschili e una volta scremate quelle che insegnano, correggono, spiegano, quello che resta è davvero prezioso. Gli uomini che raccontano il loro punto di vista non possono che arricchire il femminismo. Ma questo non toglie che resti una responsabilità maschile, da fare nei loro spazi, con il loro punto di vista – che è fondamentale – e i loro strumenti. Con i ragazzi invece il discorso cambia, a loro è importante arrivare, farli sentire inclusi e non esclusi, protagonisti del femminismo e non nemici”.

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