Era il maggio del 1981 e stava tornando al dormitorio, dopo una serata fuori. Per Alice Sebold, matricola della Syracuse University, la vita da universitaria era appena iniziata. Mentre andava incontro al suo carnefice, aveva solo diciotto anni e frequentava il primo semestre. La sorprese in un sottopasso, celato dall’oscurità, e l’aggredì. Lei tentò di opporre resistenza, ma lui era più forte.

“Ti prego, non violentarmi”, lo implorò Alice. “Sono vergine”. Non venne ascoltata. Dopo lo stupro lui la obbligò a baciarlo e urinò sul suo corpo. Sparì nel nulla, proprio come era apparso, lasciandola a terra come un animale ferito. In quello stesso tunnel un’altra ragazza era stata smembrata e uccisa. “Sei stata fortunata”, le dissero i poliziotti. Lucky. Così si intitola il romanzo di Alice Sebold, pubblicato inizialmente nel 1999, prima del successo planetario di Amabili resti, diventato anche un film.

Intervistata dal Guardian dopo l’uscita nelle sale della pellicola, la scrittrice americana ha raccontato la sua vita prima e dopo l’evento che l’ha spezzata in due. Nata il 6 settembre 1963 in Wisconsin, Sebold è cresciuta in una famiglia di accademici, fieri rappresentanti della middle class americana. “Io volevo essere l’imbecille della famiglia, perché gli imbecilli sembravano divertirsi di più, essere più liberi e avere più personalità. La vita di uno snob di mezza età mi è sempre sembrata orribile”.

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Finita in un’università non gradita dai suoi, che avrebbero preferito un’istituzione più prestigiosa, si sentì ancora più isolata dopo la violenza subita. Ciò non la scoraggiò affatto: Alice Sebold decise che la sua nuova vita sarebbe iniziata proprio da lì. Grazie alla sua determinazione, decise di tornare a studiare e si iscrisse al corso di scrittura creativa tenuto da Raymond Carver, uno dei grandi della letteratura americana del Novecento. E riuscì anche a far condannare il suo stupratore: tuttavia, nel 2021 l’uomo che ha scontato 16 anni di carcere per quel crimine, Anthony Broadwater, è stato dichiarato innocente, e Sebold ha scritto su Medium.com un messaggio di scuse nei suoi confronti.

Prima di tutto, voglio dire che mi scuso veramente con Anthony Broadwater e mi rammarico profondamente per quello che ha dovuto sopportare. Sono grata per il fatto che sia stato finalmente scagionato, ma rimane il fatto che lui 40 anni fa è diventato un altro giovane nero brutalizzato dal nostro sistema giudiziario fallito e per questo.

L’arresto e la condanna di Broadwater erano avvenute sulla base del riconoscimento che Sebold aveva fatto quando, qualche mese dopo lo stupro, aveva incontrato l’uomo per strada.

Nel caso della sua violenza, tuttavia, la sua famiglia non le diede alcun conforto, anzi, sua madre arrivò persino a dirle che, mentre la sorella si laureava in arabo, lei si era specializzata in “stupro”. Non c’era altra soluzione che andarsene e trovare un modo per vivere. E la salvezza arrivò proprio dalla scrittura.

Ecco un breve estratto del libro, dal primo capitolo. Alice Sebold è appena stata violentata, ma deve decidere quale sia il modo migliore per sfuggire a un epilogo ancora più drammatico.

«Stai bene?» mi chiese lui. Il suo tono di voce mi sbalordiva. Era preoccupato. Ma in quel momento non mi soffermai a rifletterci sopra. Sapevo solo che andava meglio di prima.
Mi rialzai e presi le mutande che mi porgeva. Non mi reggevo in piedi e per infilarmele rischiai di cadere. Per indossare i calzoni dovetti rimettermi seduta per terra. Temevo per le gambe; non riuscivo a controllarle.
Lui mi tenne d’occhio. Mentre mi tiravo su i pantaloni piano piano, il suo tono di voce cambiò.
«Troia, adesso sei rimasta incinta» mi disse. «Che intenzioni c’hai?».
Mi resi conto che poteva essere un motivo per uccidermi. Lasciava una prova. Allora mentii.
«Ti prego, non dirlo a nessuno» risposi. «Abortisco, ma tu non dirlo a nessuno, ti prego. Se lo viene a sapere mia madre, mi ammazza. Ti prego» ripetei, «se non lo dici tu è impossibile che i miei lo vengano a sapere. Non mi vorrebbero più vedere. Non raccontarlo a nessuno, ti prego».
Lui rise. «Va bene» disse.
«Grazie» dissi io. Poi mi alzai e mi infilai la camicia; era alla rovescia.
«Posso andarmene?» chiesi.
«Vieni qua» disse lui. «Diamoci un bacio d’addio». Per lui era stata un’uscita con una ragazza. Per me stava ricominciando tutto da capo.
Lo baciai. Ho forse detto che avevo alternative? Credete ancora nella libertà di scelta?
Lui si scusò di nuovo. Stavolta piangeva. «Mi dispiace tanto» disse. «Sei proprio una brava ragazza, una brava ragazza, come hai detto tu».
Le sue lacrime mi sconvolgevano, ma a quel punto era solo un’altra orribile sfumatura che non riuscivo a capire. Se volevo che non mi facesse ancora del male, dovevo azzeccare la risposta.
«Non fa niente» dissi. «Sul serio».
«No» ribatté lui, «quello che ho fatto non è giusto. Tu sei una brava ragazza. Non mi hai detto bugie. Mi dispiace per quello che ho fatto».
Mi ha sempre mandato in bestia quando in un film o in palcoscenico si chiede alla donna lacerata da una violenza di continuare a perdonare tutta la vita.
«Ti perdono» gli dissi. Era quello che dovevo dire. Sarei morta un po’ alla volta pur di salvarmi dalla morte vera.
Lui riprese animo. Mi guardò. «Sei una bella ragazza» disse.
«Posso prendere la sacca?» gli chiesi. Senza il suo permesso non osavo muovermi. «I libri?».
Ma lui pensava già agli affari. «Hai detto che avevi otto dollari?». Mi infilò una mano nei jeans e trovò il denaro. Le banconote erano avvolte intorno alla patente, che in Pennsylvania era un documento con la foto; nello stato di New York non ancora.
«E questa che roba è?» chiese. «Una di quelle tessere che vanno bene per mangiare da McDonald’s?».
«No» risposi. Ero pietrificata all’idea che avesse un mio documento. Che potesse prendersi qualcos’altro oltre a ciò che già aveva: me stessa, tranne la mia mente e i miei effetti. Volevo andarmene dalla galleria con l’una e gli altri.
Lui diede un’altra occhiata alla patente, poi si convinse. Non mi prese l’anello della bisnonna con lo zaffiro, che mi era sempre rimasto al dito; cose del genere non lo interessavano.
Mi passò la sacca e i libri che avevo comprato quel pomeriggio con mia madre.
«Da che parte vai?» mi chiese.
Glielo indicai. «Okay» disse, «stammi bene».
Promisi di sì. Mi incamminai. Rieccomi di fuori, all’aperto, dopo il cancello al quale mi ero aggrappata poco più di un’ora prima, sul vialetto di mattoni. Quella del parco era l’unica via per tornare verso casa.
Un attimo dopo.
«Ehi, tu» mi gridò.
Mi voltai. Anche lì, come in queste pagine, ero sua. «Come ti chiami?».
Non potevo mentire. Non avevo altro nome da dire se non il mio. «Alice» risposi.
«Piacere d’averti conosciuto, Alice» gridò lui. «Ci becchiamo in giro».
Corse via nella direzione opposta, lungo la rete metallica che circondava la piscina. Avevo assolto il mio compito: l’avevo convinto. Mi rincamminai.

Alice Sebold, dopo avermi stuprata mi disse: "Tu sei una brava ragazza"
Fonte: E/O
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