“La donna inscrutabile rimane inscrutabile. Mi è venuto in mente che è una specie di gatto, estraneo, riservato, sempre solitario, osservatore”.

Virginia Woolf  descriveva così la scrittrice neozelandese Katherine Mansfield, nella citazione riportata da Pietro Citati sulla pagina culturale del Corriere; imperscrutabile, quasi allergica all’uomo inteso come razza umana, quindi comprendendo in questa definizione disprezzata anche se stessa e la propria natura, quasi alienata a quella stessa vita a cui, in una fase particolare, vorrà aggrapparsi con tutta la forza possibile.

Accadde che, il 19 febbraio del 1918, salutando il sole già alto nel cielo con un verso di Shakespeare, “Ecco l’allodola gentile stanca di riposare”, Katherine sentì un consistente fiotto di sangue salirle a fior di labbra: era la sua prima emorragia, dopo la tubercolosi contratta nel 1917, la stessa che, come disse, rese il desiderio di amore e di vita più forte in lei. Come chi ha la triste consapevolezza di avere poco tempo e ancora troppe cose da dire, la Mansfield si buttò a capofitto nei suoi racconti, concludendone uno e iniziandone subito dopo uno nuovo, con il costante terrore che la morte la strappasse da questa vita prima che avesse potuto terminarlo.

Sono tisica. Ma la tisi non mi appartiene. Non è che uno spaventoso cane randagio che, da quattro anni, persiste a seguirmi; così io cerco di farlo perdere tra queste montagne“, scrisse a un amico nel periodo in cui, per curarsi, il marito, critico letterario, John Middleton Murry, la portava in Francia e in Italia; tutti i suoi inverni dopo la scoperta della malattia li trascorreva lì, e fra il 1921 e il ’22, nello Chalet des Sapins a Montana, fece del suo lavoro la sua religione, la vera essenza che la spingeva a vivere; terminato quel periodo, l’alacre lavoro si tramutò in ossessione, ossessione per la vita, cui Katherine non voleva rinunciare per nulla al mondo.

Questo, almeno, traspare dal suo diario, scritto con la fervida foga di chi vuole correre contro il tempo, salvare l’insalvabile, la stessa con cui cominciava e finiva un racconto dietro l’altro. Ma la realtà, dietro le odi alla vita, era che il suo cervello, ormai ottenebrato e offuscato, desiderava solo morire. Porre fino a tutto, a quella disperata fuga da un destino inevitabilmente segnato, da quel gioco di attesa snervante di cui si conosceva già il vincitore.

Non a caso, scelse George Gurdjeff come suo assassino; non fu l’esecutore materiale della sua morte, ma certamente ne fu ampiamente, volontariamente (e per stessa volontà di Mansfield) il responsabile.

Gurdjieff, su cui pendevano leggende come fosse un personaggio di una qualche novella cavalleresca, aveva fondato a Fontainbleu l’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo, una scuola per lo sviluppo spirituale in cui poteva mettere in pratica tutte le nozioni di esoterismo, buddhismo, induismo che combinavano il suo pensiero, basato principalmente sull’idea che la vita dell’uomo fosse uno stato di veglia perenne ma apparente, prossima al sonno, per trascendere il quale occorreva necessariamente ottenere un livello superiore di vitalità.

Nella pratica, Gurdjieff torturava i suoi discepoli, sottoponendoli a prove fisiche e psicologiche estreme, devastanti. Non risparmiò neppure Katherine, riducendola, com’era sua abitudine, alla passività totale: la fece abitare prima in una stanza bella e sontuosa, per poi trasferirla in uno stanzino freddo e spoglio, un tugurio dove lei si sentiva a disagio; le impose di pelare carote, rape,  patate, di danzare nuda in mezzo ai maiali, di inalare il fetore delle mucche nella stalla, per accogliere la “radiazione del magnetismo animale”, che avrebbe dato forza ai suoi polmoni malati.

Ma più di tutto, le tolse la sua religione, obbligandola a non scrivere più. Niente di niente, racconti, lettere, pagine di diario. La vera salvezza di Mansfield, che dal suo lavoro si era fatta assorbire fino a farsi svuotare.

Katherine vinse le resistenze iniziali e si chinò al volere di Gurdjieff, del suo assassino, dell’uomo che l’aveva ridotta, come lei voleva, a uno stato larvale. Il 9 gennaio del 1923, a soli 35 anni, un accesso di tosse mentre il marito andava a trovarla le tolse la vita: morì soffocata dal suo stesso sangue, che le usciva dalla bocca abbondantemente.

La scrittrice, che aveva trovato come unica motivazione di vita il riuscire a terminare un racconto, e pensava che finché avesse fatto scorrere la penna non sarebbe stata toccata dalla morte, aveva invece trovato il finale perfetto per la sua esistenza. Non avrebbe più dovuto preoccuparsi di nulla, avrebbe potuto essere finalmente quell’essere imperscrutabile e al di sopra della vita umana che, in fondo, in lei gli altri già ritrovavano.

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